Il rally del petrolio divide il mercato

Citi: "Con Iran e Corea greggio a 80 dollari". Barclays: "Prezzi giù causa shale Usa"

Il rally del petrolio divide il mercato

Nel febbraio 2016 i prezzi del petrolio agonizzavano sotto i 30 dollari. Poco meno di due anni dopo, le quotazioni sono più che raddoppiate e sono tornate ai massimi da oltre un triennio, con il Wti salito ieri fino a 63,34 dollari e il Brent che ha toccato quota 69,37 grazie al calo di quasi cinque milioni delle scorte settimanali Usa. Insomma, recitare il de profundis quando di mezzo c'è il barile è sempre rischioso, così come avventurarsi in previsioni su come andrà nel 2018. Non c'è infatti commodity al mondo più sensibile a una pletora di variabili macroeconomiche e geo-politiche come l'oro nero. Eppure, forse proprio per questi motivi scenari e stime abbondano.

È un esercizio multiplo che produce indicazioni contrastanti, da prendere con le pinze. Grossolanamente, gli analisti si possono dividere tra rialzisti e ribassisti. I primi, fra cui ci sono gli uomini di Citigroup, non escludono che entro dicembre i prezzi raggiungeranno gli 80 dollari. Le cause sono perlopiù legate agli stessi motivi che hanno sorretto il recente rally, con un +13% circa dall'inizio dello scorso dicembre: le tensioni in Iran, il braccio di ferro tra Donald Trump e il dittatore nord-coreano Kim Jong-un, il possibile collasso del Venezuela, fino al possibile scoppio di una guerra. Calcola Citi che solo l'imposizione di sanzioni da parte degli Usa nei confronti di Teheran, il terzo maggior produttore Opec, avrebbe l'effetto di sottrarre al mercato 500mila barili al giorno, col risultato di fornire un'ulteriore spinta alle quotazioni del greggio nell'ordine dei 5 dollari.

Un ulteriore sostegno ai prezzi potrebbe arrivare se in giugno il Cartello e gli altri Paesi produttori, in particolare la Russia, decideranno di mantenere almeno fino a settembre il tetto che limita l'output di 1,6 milioni di barili al giorno. La conferma dell'intesa non è un però un fatto scontato: Mosca ha già mostrato una certa insofferenza verso il rispetto di impegni che, grazie alla risalita dei prezzi, hanno rimesso prepotentemente in gioco i produttori Usa di shale oil, destinati quest'anno a giocare un ruolo da primattori sulla scena petrolifera. Barclays spiega che l'attività di perforazione dell'industria statunitense dello scisto sarebbe molto più elevata quest'anno se il prezzo di riferimento fosse di 60 dollari al barile, rispetto ai 50-55 stimati in precedenza. In pratica 400mila barili al giorno in più, un quarto dei tagli disposti dall'Opec e dai suoi alleati, che avrebbe un effetto calmieratore sul mercato. Al quale potrebbe venir meno anche il sostegno fornito dagli acquisti di natura tecnica effettuati nel 2017 dagli hedge fund. Mettono in guardia gli esperti di Commerzbank: «Il rimbalzo dello shale è reale, e c'è il rischio di un massiccio crollo dei prezzi».

In ogni caso, nel prossimo futuro lo shale sarà ancora più determinante.

Il dipartimento Usa dell'Energia prevede che nel 2019 la produzione petrolifera di Washington supererà sia quella saudita che quella russa per la prima volta dal 1975. L'output dovrebbe raggiungere una media di 10,8 milioni di barili al giorno nel 2019, con un picco di oltre 11 milioni di barili entro novembre dello stesso anno.

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