Che la mossa di Draghi non rappresenti la fine della crisi lo hanno confermato al Giornalebanchieri ed economisti che in questo weekend frequentano il Workshop Ambrosetti di Cernobbio: solo il 40% di loro crede che il peggio, per Borsa e spread, sia alle spalle. E, se si vuole, questo concetto è fin quasi scontato: dall’inizio di questa crisi ad oggi abbiamo imparato che tutti gli interventi della Bce (dal primo programma soft di acquisto titoli di un anno fa,
ai finanziamenti «Ltro» offerti alle banche a tassi scontati di inizio anno), rispetto alla malattia,rappresentano l’equivalente di un’aspirina: funzionano nel breve periodo, fanno guadagnare un po’ di tempo, ma poi i problemi strutturali irrisolti tornano a dettare legge e a orientare gli investitori e gli speculatori. Perché mai questa volta dovrebbe essere diverso? Forse perché è comparsa la parolina magica: «Illimitato»? A caldo sicuramente sì. Tuttavia il punto centrale della questione non è esattamente questo.
La maggiore insidia del programma di acquisto «illimitato» di titoli pubblici da parte della Bce consiste nelle condizioni che Draghi ha dovuto, gioco forza, collegare alla sua azione. Si tratta di un meccanismo che,a un’attenta lettura, risulta assai complesso. E che, a seconda di come si voglia vedere il bicchiere, se mezzo pieno o mezzo vuoto, suona a guisa di garanzia, piuttosto che di trappola. Vediamo perché.
Prima di tutto, per partire con acquisti illimitati di titoli (comunque solo a breve termine, 1-3 anni di vita residua), la Bce deve essere sollecitata. Per esempio, da uno Stato con lo spread impazzito, come in Italia è capitato l’ottobre scorso e ancora due mesi fa. Ma il contatto Stato-Banca centrale fa scattare automaticamente uno step successivo, che allarga lo spettro dell’intervento anche all’Unione europea, cioè alla politica e, in estrema analisi, anche ai singoli Stati membri. Nel comunicato finale Bce si legge che la banca scende in campo solo a condizione che un Paese chieda l’aiuto del Fondo salva Stati (Esm) e che firmi un memorandum con condizioni pesanti. Quindi la questione non si può risolvere direttamente tra Monti e Draghi. Perché la scesa in campo dell’Esm implica la negoziazione di impegni aggiuntivi esplicitamente citati: «Nuove misure correttive ». Con due ulteriori conseguenze. La prima è che comunque l’intervento dell’Esm è vincolato al Consiglio dei governatori che lo amministra, nel quale la Germania conta per il 27% e, essendo richiesta una maggioranza di almeno l’85% per approvare l’intervento, gode di diritto di veto. Inoltre è evocato anche l’intervento del Fmi a verifica e controllo del rispetto dei nuovi impegni presi: significa avere la Troika in casa dal momento successivo a quello della richiesta di intervento Bce. In altri termini, l’intervento sarà pure «illimitato». Ma, almeno così si capisce, al prezzo del famoso e fino a oggi sempre scampato quasi-commissariamento da parte della Troika. Non solo: in più pende anche il rischio che per avere approvata l’operazione si debba passare dal Parlamento tedesco, a cui bene o male fa riferimento ilvoto di Berlino all’interno dell’Esm. Quindi si capisce l’euforia dei mercati di questi giorni. Ma a Roma, forse, c’è da stare meno allegri.
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