Una mina da 3,4 miliardi di euro rischia di esplodere nei bilanci delle utility italiane. Sia delle big quotate come A2a, Edison, Hera, Acea, Iren fino ai colossi Eni ed Enel che di quelle più piccole e a dimensione locale. Si tratta degli effetti (pericolosi) di una sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce l'incompatibilità con il diritto comunitario e quindi l'obbligo di rimborso dell'addizionale provinciale all'accisa sull'energia elettrica, abrogata nel 2012.
Il danno, come detto, è ingente perché le aziende di vendita di energia elettrica stanno ricevendo da clienti e consumatori lettere di messa in mora per la restituzione di quanto versato nelle annualità per le quali non è ancora scattato il termine di prescrizione di 10 anni, cioè il 2010 e il 2011. Le utility si trovano così tra l'incudine ed il martello: hanno agito come sostituti d'imposta (versando all'Erario l'incasso dell'addizionale), ma ora sono costrette a rimborsare in proprio gli eventuali ricorsi.
I magistrati, infatti, hanno tutelato, giustamente, i diritti dei cittadini stabilendo la restituzione delle somme indebitamente versate, ma, dall'altro lato, hanno «difeso» anche la stabilità dei conti pubblici (3,4 miliardi equivalgono infatti a circa lo 0,2% di Pil) stabilendo che il consumatore finale non può rivalersi direttamente sull'amministrazione finanziaria in quanto soggetto estraneo al rapporto d'imposta che intercorre unicamente tra Erario e fornitore. Il Fisco può essere chiamato in causa solo in casi eccezionali come il fallimento del fornitore stesso.
Che cosa sta accadendo allora? Le utility stanno inviando risposte negative alle lettere dei consumatori per evitare di dover pagare con scarse possibilità di ottenere in tempi brevi quanto dovuto dallo Stato o dagli enti locali. I fornitori, infatti, hanno due anni di tempo dal pagamento per poter richiedere a loro volta il rimborso all'Erario. Tale termine scende a 90 giorni nel caso di passaggio in giudicato della sentenza con cui è condannato alla restituzione delle somme. Pertanto, paradossalmente, il contenzioso è la strada meno lunga.
È facile, perciò, prevedere che un profluvio di cause inonderà i tribunali civili di tutto il Paese. Successivamente si intaseranno le commissioni tributarie provinciali per i ricorsi tra fornitore e amministrazione fiscale. Secondo alcune indiscrezioni, infatti, l'Avvocatura generale dello Stato avrebbe inviato un parere alla Direzione centrale dell'Agenzia delle dogane, avrebbe già individuato un'interpretazione delle norme tali da bloccare, di fatto, la strada ai rimborsi automatici alle utility.
Le società energetiche, nel loro complesso, sono preoccupate. Le più gradi perché i rimborsi inciderebbero negativamente su uno scenario reso ancor più complesso dall'epidemia di coronavirus che assottiglia la domanda. Le più piccole perché i rimborsi possono mandarle in crisi di liquidità e aprire loro la strada del default. Senza contare le non piccole spese legali da affrontare per le cause in Tribunale e in commissione tributaria.
Ecco perché, a livello di sistema, si inizia a ragionare su una serie di proposte da avanzare al governo (i responsabili sono il ministro dell'Economia Gualtieri e dello sviluppo Patuanelli) e al Parlamento.
Occorre una norma che eviti i contenziosi, stabilendo una veloce procedura di conciliazione (diritto al rimborso solo documentando l'effettivo pagamento dell'addizionale indebita) e allineando le tempistiche dei rimborsi cliente/fornitore e fornitore/Erario. Le utility sono infine disponibili a predisporre un programma di rimborsi in 3-5 anni (anche come credito d'imposta) per limitare l'impatto sui conti pubblici.
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