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La Ellroy in gonnella: "I migliori thriller scritti da donne"

Iniziò con un saggio sul grande Chandler. E ora, nel suo Morire un po’, rivive la Los Angeles noir: "Sono cresciuta alimentandomi con gangster movie e melodrammi". La sua ricetta? "Tentazione, desiderio e la possibilità di arrendersi"

La Ellroy in gonnella: "I migliori thriller scritti da donne"

Ci vogliono coraggio e carattere per entrare nel mondo del noir con romanzi ambientati negli anni ’40 e ’50 a Los Angeles e seguire così le orme di Raymond Chandler, Stuart Kaminsky e James Ellroy. Ma a dimostrare che alla statunitense Megan Abbott la stoffa non manchi è stato l’immediato apprezzamento di suoi colleghi come Brett Easton Ellis. Lo stesso Ellroy che di solito non lesina stoccate, così si è espresso sulla nuova stella proveniente da Detroit: «È una grande narratrice, una profonda conoscitrice del noir e un’artista appassionata. È arrivata alle vette più alte del genere crime, ed è già passata oltre».

Nel 2002 Megan Abbott aveva già mostrato di conoscere bene la metà oscura del territorio della letteratura che avrebbe poi esplorato nei suoi romanzi pubblicando The Street Was Mine: White Masculinity in Hard Boiled Fiction and Film Noir (Palgrave Mcmilan), un saggio sulla letteratura di Raymond Chandler, James Cain e Chester Himes e sul loro rapporto con il cinema. Nel 2008 con Queenpin: A Novel (Simon & Schuster) è arrivata la consacrazione, grazie alla vittoria dell’«Edgar Allan Poe Award». E la verve della scrittrice emerge fin dalle prime pagine del suo debutto in Italia con Morire un po’ (Edizioni BD, pagg. 246, euro 14, traduzione di Paola Eusebio), romanzo che descrive gli effetti del torbido incontro fra i fratelli Bill e Lora e l’avvenente Alice.

Signora Abbott, come ha scelto i protagonisti del suo libro?
«Per molti versi, è un classico triangolo sentimentale dai risvolti bizzarri. Volevo scrivere di un uomo retto che s’innamora di una donna pericolosa, e mi piaceva l’idea di descrivere una relazione tra due fratelli rimasti orfani da bambini che sono cresciuti soli, diventando ciascuno il mondo dell’altro. Per cui ho finito per raccontare questa strana storia d’amore dal punto di vista di una sorella devota al fratello poliziotto. Naturalmente lei vede la nuova arrivata come un’intrusa, la considera pericolosa...».

Si è ispirata a un caso di cronaca vera?
«Sì. Anni fa avevo letto un articolo su Newsweek che parlava di un ufficiale di carriera la cui moglie era stata accusata di spacciare droga. Lui l’aveva protetta fino alla fine, mettendo a rischio la sua carriera. Sembrava il classico intreccio noir: l’uomo triste e patetico e la donna fatale... Ma rispetto alla classica dark lady che trascina il compagno verso una brutta fine volevo che il mio personaggio femminile fosse più complesso. Volevo ambientare il tutto negli anni ’50, proprio alla fine dell’era del cinema noir».

Che cosa ha fatto «innamorare» Ellroy dei suoi romanzi?
«James è stato gentile nei miei confronti. Come scrittore è da sempre la mia ispirazione primaria. Potrei dire che Morire un po’ è un’ode ai suoi libri. Ho letto Dalia nera al liceo e con quell’opera mi si è aperta la possibilità di esplorare mondi luccicanti e allo stesso tempo oscuri. Ellroy è stato il mio primo amore letterario».

Perché ha una predisposizione per le storie ambientate negli anni ’40 e ’50?
«Da bambina passavo tutti i fine settimana davanti alla tv a guardare vecchi film di tutti i tipi: gangster movie, commedie, melodrammi, pellicole comiche e noir. Volevo trovare la mia strada scrivendo, per entrare in quel mondo che avevo tanto seguito e amato. Ed è ciò che ancora faccio con i miei romanzi. Mi piace impegnarmi nelle ricerche: vecchi menu, riviste maschili, fotografie smarrite, cartoline, lettere... I miei preferiti sono i tabloid anni ’30, ’40 e ’50. Non giornali di classe come il New York Times, ma le testate che erano le preferite dall’uomo della strada e che trovo molto più vicine alla sensibilità popolare».

È facile raccontare oggi la vecchia Los Angeles?
«Non so se la vecchia e la nuova L.A. siano diverse. Quando ci vado trovo molte cose nuove, ma la vecchia L.A. è lì dietro, nascosta. Gran parte della città è stata costruita durante il boom di Hollywood e quando arrivi in posti famosi come Musso o Frank’s Restaurant ti sembra di viaggiare nel tempo... Ti aspetti quasi di vedere Raymond Chandler seduto al bancone con un gin gimlet».

Il legame fra L.A., cinema e noir, sembra inscindibile...
«Penso dipenda dal profondo contrasto in cui è immersa la città. È il posto dove un milione di persone che spera di diventare una stella vede spesso distrutto il proprio sogno; naturale che sia un luogo perfetto per il noir».

Come vede la scena della narrativa contemporanea noir al femminile negli Stati Uniti?
«Gran parte dei migliori thriller scritti ultimamente si devono alle donne. I libri ci assorbono, senza riguardo per il sesso dell’autore».

Lei ha vinto l’«Edgar Allan Poe Award». Quanto è stato importante per la sua carriera?
«È stato di grande aiuto. Tutto ciò che può farti notare è utilissimo. Ed essere premiata dai colleghi è stata un’esperienza indimenticabile. Inoltre, ho ricevuto una statua dipinta a mano di Poe, con baffi e tutto!».

Un romanzo che vorrebbe aver scritto?
«Il grande nulla di Ellroy o Il lungo addio di Chandler».

Un romanzo che non avrebbe mai voluto leggere?
«Non rimpiango nessuna lettura. Ho letto spesso robaccia, ma a volte vi ho trovato una frase o una scena che mi è rimasta dentro».

Esiste una ricetta del noir che ogni scrittore dovrebbe rispettare per essere fedele alle aspettative dei lettori?
«Un pizzico di tentazione, un po’ di desiderio, e la possibilità per gli eroi di arrendersi e di pagare un prezzo per le loro azioni.

Funziona sempre!».

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