Economia

Eni gioca al domino dei gasdotti, l’idea è fonderli

Scaroni incontra la nuova classe dirigente alla Fondazione Res Publica: «South Stream e Nabucco hanno un tracciato simile, unirli permetterebbe risparmi ingenti. Bene il ritorno al nucleare, ma c’è l’ostacolo delle proteste sul territorio»

«L’ipotesi di fondere i gasdotti South Stream e Nabucco, lanciata da noi di Eni due settimane fa a Houston, è sempre valida. Anzi, riprenderò a discuterne nelle conversazioni che avrò con i vari soci nelle prossime settimane». Lo ha detto lunedì scorso l’amministratore delegato del gruppo petrolifero, Paolo Scaroni, parlando a un uditorio particolare, composto dai junior fellow della Fondazione Res Publica, presieduta da Eugenio Belloni (Giulio Tremonti guida invece il Comitato scientifico) nata per diffondere la cultura politica e per favorire la crescita della nuova classe dirigente. Ad ascoltare Scaroni, nell’aula della Fondazione Mattei a Milano, c’erano oltre cento giovani manager (età massima ammessa 35 anni) che classe dirigente lo sono già, essendo alla guida di grandi società italiane.
Come, per esempio, Stefano Maruzzi, appena nominato Country director di Google in Italia. Nel pubblico anche alcune giovani donne, pochissime per la verità. Segno che, per quanto riguarda le quote rosa, la nuova classe dirigente segue il solco tracciato da quella che l’ha preceduta.
Scaroni ha parlato, a braccio, sulla difficoltà di creare grandi infrastrutture in Italia, in campo energetico e no: un intervento intenso, ricco di episodi, esperienze personali, riferimenti storici. Ma i giovani manager presenti in sala, quando è incominciato il dibattito, lo hanno sollecitato soprattutto sui temi del suo core business: il petrolio, i gasdotti, il valore strategico delle fonti energetiche. Così il discorso è arrivato presto al tema delle due pipeline progettate per portare il gas dall’Asia centrale ai mercati europei, appunto il Nabucco e il South Stream. Di questo secondo, Eni è partner assieme alla russa Gazprom. Scaroni aveva lanciato l’idea di unire i due progetti perché hanno un tracciato sostanzialmente simile e la loro fusione permetterebbe di servire ugualmente i mercati di destinazione, ma risparmiando molto sui costi, enormi: si calcola che il solo Nabucco richieda un investimento di una decina di miliardi di euro. «Io penso che i due gasdotti non siano realmente in concorrenza - ha spiegato Scaroni - perché il Nabucco ha una particolarità: tra i suoi soci non c’è nessuno che produca gas. E questa è un’anomalia, di solito tutte le grandi pipeline hanno tra i partner anche chi dispone delle risorse naturali che trasporta. Come è il caso di South Stream dove un ruolo chiave lo hanno i russi, proprietari appunto del gas. Per queste diverse caratteristiche credo sia possibile un dialogo fra i soci dei due progetti».
Un altro tema sollevato dai junior fellow è stato quello dell’annunciato ritorno al nucleare dell’Italia. Scaroni ha detto di approvare la scelta, perché era stata sbagliata, al contrario, quella fatta con il referendum del 1987 che aveva sancito l’abbandono dell’atomo. «Caso unico al mondo - ha ricordato - l’Italia non solo ha smesso di costruire nuove centrali nucleari, ma ha anche azzerato l’unica che aveva. E questa decisione, assieme all’ostracismo totale nei confronti del carbone, fa sì che la maggior parte dell’energia elettrica da noi si produca bruciando gas. Il che ci espone a dei grandi rischi: due anni fa, quando il prezzo del gas è salito enormemente, ci siamo trovati con una bolletta elettrica più alta di qualsiasi altro Paese d’Europa». Ora il ritorno nucleare punta a riequilibrare, nel futuro, questa nostra totale dipendenza da fonti importate. Ci sono due «però». Il primo riguarda il ruolo dell’Eni: più volte è stata ipotizzata una qualche forma di partecipazione del cane a sei zampe nel business dell’atomo italiano. Scaroni lo ha sempre escluso e lunedì ha confermato questa linea: «Non è nei nostri piani al momento. Comunque se decidessimo di entrare nel nucleare sarebbe un’anomalia perché nessuna società petrolifera al mondo lo fa». Il secondo, gigantesco «però», riguarda la concreta possibilità di realizzare in Italia delle centrali alimentate a uranio: «Temo che appena si tratterà di scegliere il primo sito per costruire il primo impianto nucleare ci sarà una sollevazione di tutti gli abitanti della zona. Che faranno di tutto per bloccarlo. E quello sarà il vero nodo della questione». L’ostilità a ospitare vicino a casa propria grandi infrastrutture giudicate pericolose, è comune a tutti i Paesi. I movimenti cosiddetti Nimby (not in my backyard) che contestano centrali, linee ad alta velocità, termovalorizzatori, e così via, ci sono ovunque. Ma in Italia sono particolarmente radicati e hanno più successo che altrove. La ragione? Ha spiegato Scaroni: «Noi italiani siamo ipocondriaci. Pur essendo uno dei popoli più longevi della terra, abbiamo paura di tutto. Paura delle linee ad alta tensione, della Tav, degli inceneritori, dei rigassificatori. E siamo anche diffidenti: se degli esperti qualificati ci assicurano che quella tal opera non provoca alcun danno alla salute, noi non ci crediamo.

Così degli impianti che, comunque, si fanno in tutto il mondo, da noi non si fanno o si fanno a costi doppi».

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