Politica

Equivoco proporzionale

Dispiace, o per altro verso piace, osservare che la manifestazione dell'Unione in Piazza del Popolo, è stata la più esplicita ed efficace propaganda del sistema elettorale proporzionale che si intendeva, con diversi rilievi, denunciare. Infatti, intorno a Prodi c'erano tutti i rappresentanti delle liste, da Di Pietro alla Sbarbati, da Fassino a Pecoraro Scanio, da Rutelli a Bertinotti, che aspirano al riconoscimento di percentuali anche microscopiche, ben sotto il 2%, che aspirano ad avere, come quote distinte loro riconosciute, candidati alle prossime elezioni politiche. Una sfacciata esibizione di «particolarità», di identità, sotto la fragile apparenza dei due poli, ognuno dei quali costituito da componenti cui sono destinati seggi in misura proporzionale e che, anche per questo, hanno candidato i loro leader alle primarie (contro un favorito senza partito) senza speranza di vittoria, ma per fortificare e aumentare il loro credito attraverso una sorta di macro sondaggio. Di fronte a questa evidenza, nonostante i toni apocalittici e i riti esorcistici, e le veglie di preghiera contro il demonio evocato dal centrodestra sotto forma di legge elettorale, ogni anatema e ogni formula scaramantica appaiono poco convincenti. Insormontabili come sono gli steccati, che al di là dell'alleanza dividono i valori e le richieste di Di Pietro rispetto a quelle di Fassino o di Pecoraro Scanio. Dunque, il proporzionale c'è nei fatti; ed è salutare che ad attribuire i seggi siano i cittadini con il loro voto ad ogni lista e non i segretari di partito accordandosi sui candidati dei collegi, così da far eleggere anche chi dispone dell'1% con almeno il 40% degli altri partiti della coalizione, in una spartizione scientifica che esclude completamente l'elettore come si vide, per esempio, nel memorabile e didascalico scontro nel Mugello di tre stranieri, Di Pietro, Ferrara e Curzi. Non si ascolta volentieri, allora, Rutelli quando dice che con il nuovo sistema saranno i partiti a decidere i candidati (cosa vera, in mancanza delle essenziali e benedette preferenze), ma assolutamente identica a quello che, con anche maggiore scandalo e compromessi è avvenuto con il sistema maggioritario. Non parliamo poi dell'altra bugia che si è diffusa negli ultimi giorni, a partire dalle osservazioni di Massimo Giannini, severe e indignate, e fatte proprio dal Quirinale. Per carità, giuste anche quelle, perché la Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica l'indicazione e la nomina del Presidente del Consiglio da sottoporre al voto del Parlamento con i ministri anch'essi «nominati» dal Presidente della Repubblica su «proposta» del Presidente del Consiglio.
Questo la Costituzione dice e questo non è cambiato neanche dopo la precedente riforma elettorale. Per cui è certamente sbagliato che i partiti, non si capisce perché, stretti in un patto di coalizione, debbano indicare il premier come in un sistema presidenziale. Questo persistente equivoco, ovviamente incostituzionale, in un sistema come nell'altro, è da emendare implacabilmente. Ma sembra incredibile che questa anomalia venga denunciata adesso, come conseguenza del nuovo sistema elettorale e con l'artificioso e stupefatto sdegno di Massimo Giannini e di altri oltre alla manifesta, e manifestata, preoccupazione del Quirinale, quando, in questi anni di sconveniente euforia per il maggioritario, si è arrivati, senza le proteste di alcuno, a stampare, pressoché illegalmente, il nome del candidato premier delle due coalizioni sulla scheda, espropriando formalmente e di fatto, e contro la Costituzione, il Presidente della Repubblica di un suo potere fondamentale. Avete letto proteste? Avete visto manifestazioni di piazza? Avete sentito qualcuno ribellarsi per il vulnus alle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica? Oggi si arriva, perdendo il senso del ridicolo, non a ragionare serenamente su queste e altre (sanabili) contraddizioni, come ha suggerito lo stesso Giovanni Sartori in una civile risposta a Marco Follini nella quale si invitava l'opposizione a partecipare in Parlamento alla discussione e alla correzione, utile per tutti, della proposta di riforma elettorale. E non come ha programmato Arturo Parisi a partecipare alla vigilia del dibattito, a una veglia di preghiera (sia pur laica) di chi considera (o finge di considerare) la riforma un sacrilegio. A questa atmosfera di preghiera si è dimostrato incline, negli ultimi giorni, anche Il Corriere della Sera con varie e dolenti omelie di sacerdoti del maggioritario che, invece di convenire sul suo fallimento, lo esaltano come un miraggio perduto.
In questa fiera dell'ipocrisia non si contano (da Marini a Bertinotti, da Mastella a Fioroni, da Diliberto a De Mita, da Cossutta a Boselli) gli storici sostenitori del sistema proporzionale nel fronte del centrosinistra che oggi mostrano, strenuamente, di difendere il maggioritario; mentre tra i più nostalgici orfani del maggioritario già si distingue Gianfranco Fini che, disciplinatamente, si avvia a votare la riforma. Intanto, fra le lacrime di ammirazione di Mariotto Segni, un nuovo statista, Matteo Colaninno, si innalza a difendere le virtù del maggioritario, forte della sua esperienza e con motivazioni così originali da meritare una risposta di Apicella, il menestrello di Berlusconi: «Il ritorno al proporzionale sarebbe un inutile e pericoloso salto indietro di dieci anni. Per rendere efficiente il nostro bipolarismo, invece, crediamo che sia necessario completare l'approdo verso un sistema completamente maggioritario». Peccato che un referendum abbia vanificato questo sperato approdo non consentendo l'eliminazione della quota proporzionale che è l'antefatto di questa riforma, davanti all'evidenza che i partiti non si sono dissolti in due poli, ma si sono fortificati accrescendo a dismisura, nell'imperfetto maggioritario, il loro potere di interdizione e di ricatto. Per trovare una posizione chiara, senza finzioni, opportunismi o banalità (oltre alle falsità sopraindicate), occorre ritornare ad un sereno e disincantato Giulio Andreotti, il solo (tra le «velate» dal suo ex partito) a dire una inconfutabile verità: «Per decenni siamo andati piuttosto bene con il proporzionale. Non è vero che non assicura stabilità, anzi: eravamo sempre gli stessi, con qualche aggiustamento. Casomai è l'attuale sistema bipolare che mostra difetti enormi: posizioni contraddittorie in ciascun polo; e abolizione di fatto del dialogo politico. C'è solo uno scontro di numeri e quasi mai un tentativo di modificare l'opinione dell'altro... non capisco perché si parli di “scandalo delle preferenze”. Erano una buona cosa, l'elettorato aveva una funzione più attiva e potevano emergere figure nuove. Altro che “frenare lo strapotere dei partiti”, come chiedeva il referendum voluto da Segni: nel sistema vigente è proprio il potere che fissa le candidature». Ma non ditelo a Colaninno: era distratto, non se n'è accorto. Io sì, invece, perché senza le preferenze (di cui mi compiaccio perché vuol dire preferire l'uno all'altro, anche nello stesso partito), non sarei mai entrato in Parlamento.
E non si può dire che non fossi una «figura nuova» (e scomoda). Oggi, da figura vecchia, vorrei fare però una bella figura, essere scelto, preferito, non nominato da un capo che non riconosco e che non voglio. Ma in questi anni Colaninno ha creduto di vivere in democrazia, mentre viveva sotto una oligarchia, senza scampo, a destra come a sinistra. La sinistra ora, dialogando con la destra, invece che urlare in piazza e pregare nelle veglie, potrebbe impedire che, con altri sistemi, questa oligarchia si riproducesse.

Ne dovrebbe discutere in Parlamento e preferire la verità all'ipocrisia.
Vittorio Sgarbi

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