Era un demonio ma amava i paradisi artificiali

Fece debuttare Michael Douglas a nove anni, molto prima che iniziasse a fare l’attore e a totale insaputa tanto del piccolo quanto di suo padre, Kirk, celeberrimo divo, che andò su tutte le furie.
Le cose andarono così. Il Nostro, un riccone con vari interessi, aveva prodotto Ventimila leghe sotto i mari, film d’avventure di cui Kirk Douglas era protagonista. Per festeggiare l’ultimo colpo di manovella, il magnate invitò l’attore nella sua villa sull’Oceano Pacifico per un pomeriggio di relax. «Porta i ragazzi - gli raccomandò -. Si divertiranno». Kirk capì a cosa alludeva e accettò felice. Era noto a tutti che il Nostro si era fatto costruire il Carolwood Pacific, un trenino in scala ridotta col quale scorrazzava nel suo immenso giardino, spassandosela come un bambino. Il pomeriggio fu davvero eccezionale. Il piccolo Michael e i fratellini lo ricordarono come il più bello della loro infanzia, su e giù dalla locomotiva a vapore, gridando e ridendo. Due settimane dopo, quella mezza giornata di spensieratezza fu trasmessa nel seguitissimo show tv del Nostro, irradiato in tutti gli States. I Douglas, ripresi di nascosto, erano diventati gli attori involontari dello spettacolo. Un inganno indegno. Senza cacciare un penny, il magnate aveva realizzato un reality-show con una celebre famiglia di Hollywood e ne traeva un lauto compenso.
Fare palate di soldi lasciando a bocca asciutta gli altri era la specialità del Nostro. Stavolta però, aveva passato il segno violando la vita privata dei Douglas. Il capofamiglia si rivolse alla giustizia. La causa volgeva a suo completo favore, quando Kirk Douglas ritirò improvvisamente la denuncia. A chi gli chiese ragione della marcia indietro, rispose: «Non si può fare causa a Dio».
Per Hollywood, il Nostro era Dio non solo per la ricchezza, la celebrità mondiale, la grandiosità degli studios, ma anche per la sua personale pericolosità. I dipendenti lo definivano «uno spietato aguzzino» e lo odiavano. Li sottopagava, ne disconosceva ostinatamente i meriti, li licenziava al minimo accenno di ribellione. Pretendeva però di esserne amato e si faceva dare del tu anche dai fattorini. «Io - diceva - ho una mia politica. Preferisco che tutti mi chiamino per nome, piuttosto che concedere cinque dollari d’aumento». Detestava i sindacati e stroncò ogni tentativo di crearne uno nella sua azienda. Per impedirlo, ricorse perfino ai gangster di Los Angeles. Una prima volta, incaricandoli di creare un sindacato giallo, cioè fasullo e a lui subordinato. Poi, quando i lavoratori gli piantarono egualmente uno sciopero, per fare ammonire i più temerari da scagnozzi senza scrupoli.
Nonostante tutto, lo sciopero ebbe successo e per cinque mesi, da aprile a settembre 1941, gli studios cessarono ogni attività. Intervenne anche la magistratura che costrinse il Nostro a annullare i licenziamenti, aumentare gli stipendi e concedere ferie pagate. Una sconfitta su tutta la linea che lo fece prorompere nel seguente grido di dolore: «Lo sciopero è stato una catastrofe. Sono profondamente disgustato. Mi troverei un altro impiego se non fosse per i ragazzi leali (i crumiri, ndr) che credono in me. Sono convinto che questa confusione è stata orchestrata dai comunisti».
Ebrei e comunisti furono la sua ossessione. Aveva simpatizzato per i nazisti statunitensi e incontrato a Roma, nel 1937, Benito Mussolini. Ma più che un fascista era un tradizionalista americano. Fu agente coperto del Fbi e collaborò nel dopoguerra col Comitato sulle attività antiamericane del senatore J.R. McCarthy, contribuendo con voluttà a rovinare la vita di attori, registi, sceneggiatori, meglio se ebrei, in sospetto di comunismo, radicalismo e eccentricità. Quando, nel 1952, Charlie Chaplin non fu più riammesso negli Usa, commentò: «Senza quel piccolo rosso, il Paese tirerà avanti meglio».
L’infanzia del Nostro spiega la sua personalità contorta. Il padre era un fallito ubriacone, oberato di debiti di gioco. Per un nonnulla frustava il figlio lasciandolo a terra semisvenuto. La madre, indifferente o impaurita, non lo difendeva. I soli amici del fanciullo erano le mucche, i maiali, i topi, le galline della piccola fattoria della sua infanzia nel Missouri. Questi, così tristi, furono gli anni formativi della sua sensibilità artistica. Il trauma causato in lui da una simile famiglia si rispecchia nella sua opera: un mondo fantastico senza genitori, dove tutti sono zii, cugini, fratelli, nonni, nipoti. Inoltre il dubbio di essere un figlio spurio o adottivo, dovuto all’ambiguità di alcuni documenti scoperti a 18 anni, confinarono definitivamente il Nostro nell’irrealtà. Poiché la vita vera gli aveva riservato solo botte e dolori, ebbe nostalgia di un mondo ordinato e sereno. Così si rifiutò di crescere, immergendosi in un’infanzia artificiale e felice, opposta a quella da lui vissuta.


Di qui, l’odio per gli scioperi, la discordia sindacale, le pretese arroganti dei «rossi»; e, viceversa, l’amore per i trenini in scala, i castelli delle fate, le torte di mele della nonna, le avventure a lieto fine in cui il Nostro si rifugiò.
Chi era?

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