«Per fortuna papà finì deportato in Siberia». Possiamo togliere le virgolette, ma è questo il senso della biografia di quel papà scritta da sua figlia. Eppure quel padre, Fëdor Michajlovic Dostoevskij, lei lo amava. Anzi, lo idolatrava. Soltanto, era convinta che furono proprio gli anni della galera e dei lavori forzati a Omsk, fra il 1850 e il 54, a forgiarne larte. Lì il grande scrittore conobbe lanima della Russia, traendo dalla feccia dellimpero zarista i diamanti dei caratteri destinati a brillare in Delitto e castigo e in I fratelli Karamazov. Perché papà, sottolinea Aimée, non era russo, bensì lituano (suo nonno paterno, arciprete ortodosso, discendeva infatti da una nobile famiglia lituana), quindi normanno, quindi europeo.
Figlia, oltre che di cotanto padre, anche del positivismo di fine Ottocento-inizi Novecento, la signora insiste nel ricondurre alle radici etniche e alle relative inclinazioni i tratti psicologici del genitore: fierezza, individualismo, una certa ombrosità di base diradata dalla luce degli affetti autentici. Del resto, commenta lautrice, papà non è il solo, fra gli eccelsi spiriti russi, a non essere davvero russo: «Pukin era di origine negra, il poeta Lermontov discende da un bardo scozzese Lermont venuto, non so perché, in Russia, il poeta Zukovskij è figlio di una turca, Nekrasov di una polacca, il poeta Aleksej Tolstoj è ucraino, Lev Tolstoj è di origine germanica».
Dostoevskii nei ricordi della figlia, uscito nel 1922 dalle edizioni Treves e ora strappato alloblio da Ripostes, un piccolo editore di Battipaglia, è una lettura interessante perché ci mostra come venne recepito da chi gli era vicino luomo che compì non una, ma due rivoluzioni. La prima, letteraria, affrancando il romanzo russo dal servaggio nei confronti del «naturalismo» importato dalla Francia, e la seconda, politica e anchessa anti-europea, dando nuovo impulso al partito slavofilo e filo-orientale. E se la prima è quasi esclusivamente una questione di stile, la seconda potremmo definirla geofilosofica: ai russi e ai popoli loro affini il concetto di democrazia rappresentativa non si addice, si sentono uniti soltanto sotto linsegna di un sovrano illuminato e compassionevole. Togliere loro lo zar significa gettarli nellanarchia che sempre cova nella loro indole. Dostoevskij lo sperimentò sulla propria pelle con lesito della congiura di Petrasevskij, alla quale prese parte per motivi estetici, più che etici, e che lo portò a un passo dalla fucilazione e poi alla pena scontata in Siberia, accettata (con il fatalismo stralunato del principe Mykin nellIdiota) come giusta espiazione di una colpa. Chi si fece, come scrive la figlia Aimée, «discepolo» dei galeotti, non poteva perdonare i vari Demoni e demonietti idealisti ma vigliacchi.
Le donne poi... Maria, la prima moglie, lo tradiva alla luce del sole. E lidillio con Paolina, una sorta di «indignada» ante litteram di facili costumi, servì unicamente a farlo scorrazzare senza costrutto in giro per lEuropa. Dalla chiusura di quella parentesi, tuttavia, dice Aimée, nasce il nuovo Dostoevskij, che antepone la ragione alla passione. Un cambio di prospettiva imposto anche dallaccollarsi dei debiti accumulati dal fratello maggiore Michail, morto alcolizzato. Così la diciannovenne Anna Grigorevna Snitkina in breve divenne, da eccellente stenografa del Giocatore, rassicurante consorte del quarantacinquenne dello scrittore. «Se tu sapessi - diceva Anna ad Aimée - quanto tuo padre era giovane, come rideva, scherzava, si divertiva di tutto!». Il lavoro, intervallato soltanto dai periodi di cura a Ems, era ora lesclusiva missione di Fëdor Michajlovic. E negli articoli del Diario di uno scrittore cominciò a fornire le sue lezioni di russità, distanti sia dalledonismo di Turgenev, sia dal «disfattismo» di Tolstoj.
Scritto in Svizzera fra il 18 e il 19, questo ritratto di Dostoevskij non è semplicemente latto damore di una figlia nei confronti del padre. È anche laggiornamento del testamento spirituale di un grande ingegno alla luce della Rivoluzione dOttobre.
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