Cinquant’anni fa Nixon lascia la politica, poi ci ripensa e diventa presidente

Già sconfitto da Kennedy nel 1960, nel ’62 perde anche la corsa a governatore della California. Sfiduciato, decide di uscire di scena ma nel ’68 torna in lizza, batte il candidato democratico ed entra alla Casa Bianca. Nel 1974 sarà però costretto a dimettersi per lo scandalo Watergate

Dopo aver perso appena due anni prima la corsa alla presidenza degli Stati Uniti, Richard «Dick» Nixon corse per la carica di governatore ma il 7 novembre del 1962 le urne decretarono la sua seconda sconfitta. La sera stessa convocò i giornalisti a cui comunicò che «D’ora in poi non avrete più un Richard Nixon da prendere a calci...questa sarà la mia ultima conferenza stampa... ». Una frase che la diceva lunga sui suoi pessimi rapporti con il mondo dell’informazione. Una promessa comunque non mantenuta: sei anni si candidò nuovamente, questa volta alla presidenza della repubblica, battendo di misura il candidato democratico.
Il giorno dopo la sua vittoria, ottenuta il 6 novembre 1968 contro Hubert Horatio Humphrey, alcuni giornali americani titolarono: «La più grande resurrezione dai tempi di Lazzaro». Un commento per nulla fuori luogo se si pensa alle tante batoste subite da Nixon, forse il politico più longevo nella storia americana. Nato in California nel 1913, laurea in legge nel 1937, fa il suo ingresso al Congresso nel 1947 prima come deputato poi nel 1950 come senatore. Nel 1953, a coronamento di una inarrestabile carriera, entra alla Casa Bianca come vice del presidente repubblicano Dwight Eisenhower, carica confermata anche al secondo mandato.
Nel 1961, corre come presidente ma trova sulla sua strada l’astro nascente di John Kennedy che lo sconfigge dopo lo storico duello televisivo. La sera del 26 settembre 1960, per la prima volta nella vita politica americana, i due candidati si presentarono di fronte alle telecamere. Kennedy, quattro anni più giovane, fu sfolgorante: era bello, telegenico, accattivante e sicuro di sé. Nixon invece fu penalizzato dal colore della giacca e dal suo volto tirato e sudato, nelle ore precedenti era stato colpito da una forte febbre, e per il rifiuto di ricorrere ai truccatori. E fu sconfitto, anche se di pochissimo, appena 100mila voti su poco meno di 70 milioni, pari allo 0,2 per cento.
Ma Nixon non era uomo da arrendersi facilmente così due anni dopo si presentò a guidare la California, uno dei più popolosi e ricchi stati americani. E fu nuovamente sconfitto, questa volta da Edmund Gerald «Pat» Brown, governatore uscente. Così il 7 novembre 1962, a urne aperte, convocò la famosa conferenza stampa per annunciare il suo ritiro «Non avrete più un Richard Nixon da pendere a calci» disse ai giornalisti che non lo avevano mai amato e lo avevano sempre preso di mira, arrivando a chiamarlo «Tricky Dick», cioè «Riccardino l’imbroglione», nomignolo creato da un avversario politico. Lui del resto non aveva mai fatto nulla per rendersi simpatico: «Se non sei capace di mentire non andrai molto lontano» era una delle sue massime preferite.
Eppure «Lazzaro» risorse sei anni dopo. Nel 1968 vinse le primarie repubblicane e poi battè di misura il candidato democratico Hubert Humphrey: 43,4 contro 42,7. Quattro anni dopo si ripresentò e sconfisse George Stanley McGovern con un sonante 60 per cento contro il 37 del rivale. Un avvio fulminante per il suo secondo mandato che però si concluse bruscamente appena due anni dopo quando, primo e unico presidente americano, fu costretto alle dimissioni. I reporter del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein accusarono «Tricky Dick» di aver usato i servizi segreti per spiare il quartier generale del Comitato Nazionale Democratico riunito al Watergate Hotel nella primavera del 1972. Nixon resistette disperatamente, negò ogni addebito ma l’8 agosto 1974, senza mai ammettere la sua colpa, per sottrarsi al procedimento di «impeachment», ovvero la messa in accusa del presidente, fu costretto a lasciare la Casa Bianca. A «Lazzaro» l’ultima «resurrezione» questa volta non era riuscita.

Passarono così in secondo piano i grandi successi ottenuti in politica estera, come i primi trattati con Mosca per ridurre gli armamenti nucleari, «la politica del ping pong» per aprire il dialogo con la Cina e l’inizio delle trattative con i nordvietnamiti per porre fine alla guerra nel sud est asiatico.

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