Ma dal Congresso di Pechino non uscirà un Gorbaciov cinese

Ma dal Congresso di Pechino non uscirà un Gorbaciov cinese

diÈ cominciato ieri a Pechino - in un tripudio forse un po' anacronistico di bandiere rosse e falci e martello - il 18° Congresso del Partito Comunista cinese che dovrà sanzionare il decennale ricambio della sua leadership: un avvenimento cruciale non solo per il Paese, ma per il mondo intero. Xi Jinping, un figlio della nomenklatura con una famiglia milionaria prenderà, prima alla testa del partito e poi dello Stato, il posto di Hu Jintao, Li Keqiang succederà a Wen Jiabao come primo ministro e un nuovo Politburo di sette membri - al posto degli attuali nove - composto in maggioranza da (presunti) riformisti affiancherà i due nell'esercizio del potere.
Il cambio della guardia avviene in un momento molto delicato per la Cina, come lo stesso Hu, pur vantando i risultati della sua gestione, ha sottolineato nel discorso di addio: la diffusa corruzione, ha detto «potrebbe provocare una crisi del partito e perfino un crollo dello Stato» e la necessità di riforme - ma non seguendo il modello occidentale - si è fatta più impellente. A peggiorare le cose una serie di scandali, pubblicizzati da una rete ormai incontrollabile di social media, ha scosso il prestigio del partito. Tutti si interrogano ora su quale sarà l'approccio del nuovo leader: insisterà nella repressione del dissenso o avvierà una fase riformistica, magari con la privatizzazione della terra, un ridimensionamento delle industrie di Stato e un embrione di democrazia?. Gli ottimisti gli attribuiscono credenziali «liberali» (qualcuno lo ha addirittura giudicato un Nelson Mandela in pectore), e sottolineano il fatto che ha l'aperto sostegno dell'ottantaseienne patriarca Jiang Zemin, che tra il 1992 e il 2002 diede il la al miracolo economico cinese e che ora è tornato alla ribalta. Ma c'è chi ricorda che dieci anni fa anche Hu fu salutato come un potenziale innovatore per rivelarsi poi come il leader più statalista, più ostile all'Occidente e più rigido in materia di diritti umani dai tempi di Mao. «Inutile» avverte il sinologo Christopher Johnson «aspettarsi ora che Xi diventi il Gorbaciov cinese. Non ne ha il coraggio né la lungimiranza. E comunque, il sistema, e in particolare il migliaio di famiglie che controllano l'economia, non glielo permetterebbero mai».
Il punto di partenza è che il «miracolo» cinese è in via di esaurimento. Dall'abituale 9-10%, quest'anno il Pil crescerà solo del 7,6, (e forse meno), la produzione industriale è in calo e la borsa è al livello più basso degli ultimi tre anni. La caduta delle esportazioni, dovuta alla recessione europea e allo stentato sviluppo americano, ha portato alla chiusura di molte aziende e a un conseguente disagio sociale proprio nelle regioni che più si erano avvantaggiate del boom. Il regime ha cercato di rimediare incoraggiando i consumi interni e promuovendo un vasto programma di rinnovamento delle infrastrutture, ma la conversione risulta più difficile del previsto, con le grandi aziende tuttora in mano pubblica che soffocano le piccole e medie. Incombe sul Paese lo scoppio di una bolla immobiliare che - come già accaduto in Spagna e negli Usa - potrebbe avere ripercussioni catastrofiche sul sistema bancario. La Cina comincia inoltre a pagare - con un invecchiamento della popolazione - la famigerata politica del figlio unico. Dal momento che il governo spende, per sanità, previdenza e istruzione, solo il 7% del Pil (a fronte di una media Ocse del 22), la negativa evoluzione demografica risulta particolarmente pesante per la stessa coesione sociale. Sono in programma maggiori investimenti in questi settori, ma intanto la diseguaglianza tra i nuovi ceti urbani e le masse contadine continua a crescere, dando luogo a frequenti disordini locali.
Il compito che attende i nuovi dirigenti è dunque immane, e i loro piani restano avvolti nel mistero.

Se non dovessero riuscire a correggere le storture portate dal «miracolo» e anche la Cina dovesse entrare in recessione, la crescita globale si ridurrebbe drasticamente e gli americani non saprebbero più a chi vendere i loro bond. Ecco perchè anche in Occidente, nonostante la naturale diffidenza, si farà il tifo per Xi-Jinping.

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