La dignità del reporter e la verità ritrovata

La sofferenza e la verità. A Domenico Quirico dobbiamo riconoscere innanzitutto questo. Dobbiamo riconoscergli di aver trascorso cinque mesi all'inferno conservando la capacità di discernere, riflettere e ragionare. Di aver saputo continuare a osservare con l'occhio del professionista il film dell'orrore che all'improvviso lo inghiottiva trasformandolo da protagonista in vittima. Di aver conservato nel terrore la capacità di analizzare le sottovalutazioni, le imprecisioni, le deformazioni della verità che lo avevano portato a dimenticare come in una guerra civile buoni e cattivi, ragioni e colpe, non stiano mai da una parte sola.

Prima di arrivare al suo ultimo fatale appuntamento con la Siria, Domenico aveva inseguito, lo riconosce lui stesso, il fantasma di una rivoluzione già finita. Per capirlo non sarebbe stato necessario buttarsi nelle mani del diavolo. Già dalla metà del 2012 molti siriani, protagonisti dei primi cortei di protesta contro il regime di Bashar Assad, ti raccontavano la loro delusione, la loro rabbia nei confronti di chi aveva trasformato le loro speranze in una spietato massacro fratricida. Per accorgersene sarebbe bastato ascoltare entrambe le voci, dare il giusto peso a quelle di chi nascondeva il fanatismo religioso sotto la pretesa di portare democrazia e libertà. Questo non significa che Domenico si meritasse un millesimo di quel che gli è capitato. Nella storia di questa professione c'è chi ha riscattato con uno «scusatemi» errori assai più tragici come la presunzione di considerare i khmer rossi e i vietcong dei sinceri democratici. Quelle di Domenico erano sviste veniali e transitorie. Sviste a cui lui stesso avrebbe rimediato se fosse riuscito a portare a termine l'ultimo reportage. Per questo Domenico avrebbe potuto facilmente tacerne. Avrebbe potuto cercare di commuoverci e appassionarci con il resoconto dei maltrattamenti, delle privazioni e di quelle due terribili finte esecuzioni. Ma Domenico Quirico non è un venditore di fumo.

Non è un coraggioso a metà. Il suo primo cruccio, la sua prima preoccupazione, forse già quand'era nelle mani dei propri aguzzini, è stato far pace con la propria coscienza, comprendere le ragioni di quello che considera un suo errore, una sua imprecisa valutazione degli eventi. Un malessere morale sommatosi durante la prigionia a paura, fame e dolore fisico. Un senso di colpa probabilmente esagerato, amplificato dall'isolamento psicologico, ma frutto della responsabilità e serietà di chi considera il giornalismo una passione prim'ancora che una professione.

Una gran bella differenza, diciamolo, rispetto ad altri colleghi che in passato hanno sfruttato la platea del ritorno per tessere l'elogio dei propri carnefici o attaccare il governo e le istituzioni che li avevano salvati. Ma il contegno, la dignità e la fermezza emerse intatte da quella pelle diafana e da quello sguardo emaciato riscattano alla fine persino loro. Grazie Domenico.

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