Un granello di sabbia dopo l'altro, la clessidra che conta il tempo che manca allo scoppio di una guerra civile in Ucraina e al conseguente (e da tempo già pronto) intervento militare russo per «pacificare» l'Est del Paese si va svuotando. É invece ormai quasi quasi colma la metà inferiore, quella che indica la fine del tempo a disposizione per trovare una soluzione diplomatica, da tutti a parole invocata tranne che dagli scatenati separatisti filorussi, sempre più chiaramente pilotati da Mosca e per questo sempre più aggressivi e baldanzosi. Ieri è scaduto il termine dell'ultimatum posto dalle autorità di Kiev ai ribelli che occupano edifici istituzionali in città e villaggi della regione orientale del Paese, ai confini con la Russia. L'offerta di rinunciare a ogni azione penale nei confronti di chi si fosse ritirato e avesse consegnato le armi non solo è finita inascoltata, ma si è assistito a dimostrazioni di ulteriore aggressività da parte dei filorussi: azioni evidentemente coordinate, e che non possono essere coordinate che da professionisti sul posto. Così è stato assaltato e messo sotto controllo un aeroporto militare presso la città di Slaviansk; è stato lanciato dal leader filorusso Viaceslav Ponomarev, che ha preso il controllo del municipio di Slaviansk alla guida dei suoi militanti, un appello dai toni teatrali a Vladimir Putin «affinché ci protegga e non permetta un genocidio della popolazione del Donbass»; è stato dato l'assalto al palazzo della polizia a Horlivka, con tanto di tentativo di linciaggio del suo capo ad opera di una folla scatenata.
Contemporaneamente, Putin fa sapere di aver ricevuto diverse richieste d'aiuto per l'Ucraina orientale e di seguire la situazione «con grande preoccupazione». È il linguaggio tipico del vecchio Kgb, che preludeva ai famosi «interventi fraterni» sovietici nei Paesi in cui il Cremlino imponeva la propria legge. Altrettanto tipicamente, Mosca confonde ad arte le idee degli osservatori internazionali e afferma di «non essere interessata a farsi coinvolgere negli affari interni dell'Ucraina». Sembrano parole rassicuranti, ma per comprenderne l'ambiguità bisogna leggere la seconda metà del messaggio del ministro degli Esteri russo Lavrov: «Chi incoraggia le autorità ucraine ad utilizzare la forza per reprimere le proteste nelle regioni orientali del Paese dovrebbe essere chiamato a rispondere delle conseguenze». Tradotto: siamo pronti a intervenire come «pacificatori» nell'Est dell'Ucraina e daremo la colpa a voi. E a Kiev cosa fanno? Il governo è combattuto tra l'intenzione di usare la forza per fermare l'occupazione strisciante delle province orientali e la necessità di dare ascolto agli alleati occidentali che pretendono senso di responsabilità, temendo che Mosca aspetti solo un pretesto per varcare la frontiera con i suoi 40mila militari pronti da settimane. Ieri il presidente Oleksandr Turchynov ha dunque lanciato un messaggio ambivalente: da una parte ha firmato il decreto per l'operazione antiterrorismo contro i ribelli filorussi, dall'altra non ha escluso di far tenere il 25 maggio, insieme con le presidenziali, un referendum nazionale sull'ordinamento statale del Paese - federale o unitario. Quanto agli Usa e all'Europa, come sempre, minacciano «ulteriori sanzioni a Mosca». Che come sempre se ne fa un baffo.
Le attese sono puntate sul vertice di giovedì prossimo a Ginevra e forse oggi Obama e Putin si parleranno. Intanto, si è appreso che sabato scorso per 90 lunghi minuti un caccia russo ha quasi sorvolato a 150 metri di quota una nave da guerra americana nel Mar Nero: tanto per far capire l'aria che tira.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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