Ieri le elezioni nell'isola nordica che è riuscita a rilanciare l'economia il caso

Lassù nell'oceano artico, tra balene, merluzzi e vulcani, c'è un'isola di cui solitamente quasi nessuno si ricorda, perché quasi nulla di interessante vi accade. E proprio per questo, la remota Islanda ha sempre potuto considerarsi un Paese fortunato, lontano dalle brame altrui e in grado di gestire ottimamente le proprie modeste risorse grazie a un altissimo grado di civilizzazione.
Non proprio sempre, a ben vedere. Il piccolo Paese nordico con soli 300mila abitanti chiamato ieri alle urne è stato protagonista in negativo a partire dal 2008 di una crisi economica drammatica, innescata dalle scellerate scelte delle sue banche. Che attraverso un perverso meccanismo di abnormi movimentazioni di denaro virtuale erano arrivate a «pesare» 12 volte più dell'economia reale del Paese: era solo virtuale, appunto, e un brutto giorno il castello di carte crollò. Le tre principali banche nazionali fallirono, seguì una drammatica implosione finanziaria, la perdita di molti posti di lavoro e il generale impoverimento di un popolo abituato a vivere ben al di sopra delle proprie reali possibilità. Il prezzo politico fu pagato dal governo conservatore e dal suo premier di allora Geir Hilmar Haarde.
Nuove elezioni portarono al potere per la prima volta una coalizione di sinistra, che impose ricette amare e non solo per gli islandesi: incassato un corposo prestito dal Fondo monetario internazionale, le banche furono lasciate fallire e questo implicò la perdita dei depositi anche per i molti correntisti stranieri, britannici soprattutto, la moneta nazionale fu svalutata per favorire le esportazioni (voce importantissima dell'economia nazionale) e l'arrivo dei turisti, e furono inoltre prese una serie di misure di austerità che hanno sì salvato il malato (l'Islanda) ma hanno stremato gli islandesi, con le famiglie sempre più indebitate, un terzo delle quali non sono tuttora in grado di far fronte a spese impreviste anche di mille euro.
Si verifica così una situazione solo apparentemente paradossale: chiamati a votare per il rinnovo del Parlamento, gli islandesi si apprestano secondo i sondaggi a rimandare all'opposizione gli artefici del salvataggio e a rimettere nelle stanze del potere coloro che insieme con i banchieri furono corresponsabili del disastro. Poiché nulla è casuale, è il caso di provare a dare una spiegazione. Anzitutto, va ricordato che l'Islanda è tradizionalmente conservatrice e che non ha mai premiato la sinistra di governo: la scelta controcorrente del 2008 aveva rappresentato una sorta di eccezione obbligata. La natura di alcune delle scelte fatte dalla premier uscente Johanna Sigurdadottir (che lascerà la politica) è parsa inoltre troppo ideologica, in particolare quella di sostenere i consumi interni gonfiando la spesa pubblica soprattutto a favore dei meno abbienti. Non ha poi convinto la prospettiva di far aderire l'Islanda all'Unione Europea, entrando nell'euro.


Per parte loro conservatori e centristi, che candidano premier due signori di 38 e 43 anni, si oppongono alla prospettiva Ue, e propongono di ridurre le tasse e il peso dei mutui immobiliari, che stanno strozzando una famiglia su dieci, non più in grado di pagarli.

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