GerusalemmeDelusi i palestinesi per la sparizione degli insediamenti dall'agenda, affascinati gli israeliani per il calore di Obama, incerto il futuro. La doppia missione della giornata, la visita a Ramallah da Abu Mazen e poi il discorso alla massa degli studenti israeliani, ha preso due strade apparentemente divergenti, quella della frenata sul tema degli insediamenti a Ramallah, e quella, al pomeriggio, di un bagno di folla giovanile israeliana. Obama ne esce con uno staccato mirabile, e anche con una narcisistica piroetta in cui la rassicurazione dell'appoggio americano fa da supporto alla sua visione del mondo. Obama ha interpretato con maestria la sua parte di sognatore ieri sera. Ma resta chiara la strada concreta scelta per il viaggio: nel tempo della crisi che in Medio Oriente ha la faccia dell'Iran nucleare, della Siria, delle armi chimiche, degli Hezbollah, di Hamas e dell'ascesa dei Fratelli Musulmani, bisogna smetterla di litigare con Israele.
A Ramallah, Obama ha irritato Abu Mazen anche se in mezzo alle cordialità di prammatica. Dopo aver ribadito il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente, il presidente ha detto che non cercherà soluzioni ad interim, che lavorerà solo a una pace definitiva e che i palestinesi non devono imporre troppe precondizioni per tornare al tavolo: «Altrimenti a che serve trattare?». Ovvero: Abu Mazen non deve aspettarsi, si capiva fra le righe, il congelamento preventivo degli insediamenti. Una novità, dato che la road map personale di Obama era fondata sul total freeze: ora gli insediamenti sono, sì, stati menzionati, ma quasi per caso. Così Abu Mazen, dopo il rifiuto di visitare la tomba di Arafat, dopo le scene di intimità e simpatia con Netanyahu, ha preso il microfono: senza un impegno sugli insediamenti, non si torna alla trattativa. Obama non ha fatto una grinza: ha seguitato a lodare le buone intenzioni di Abu Mazen, a promettere l'aiuto americano (l'Autorità Palestinese è sull'orlo del collasso), e a dimostrare quella vicinanza di cui Abu Mazen ha bisogno contro Hamas nella scena interna e per contare nel mondo arabo. Ma gli insediamenti non sono più i primi della lista, inutili le dimostrazioni dei palestinesi che nelle strade hanno dipinto di nero i ritratti di Obama e gli hanno tirato le scarpe. Poi, gli elicotteri Black Hawk si innalzano, la teoria infinita di macchine blocca di nuovo Gerusalemme, e Obama fa a Binyanei Hauma la sua doppia piroetta. Il presidente seduce, cita tutti i profeti possibili, Yoshua, Mosè, Herzl, Martin Luther King, Truman, Rabin, Begin, Sharon, questi ultimi tre leader di pace. Racconta con affetto la storia del sionismo: avete compiuto il miracolo di tornare alla Terra dei vostri padri, di far fiorire il deserto e la democrazia, avete vinto 10 premi Nobel per la scienza, come noi siete un popolo di immigrati, e vivete in mezzo a orribili pericoli, il mondo arabo vi rifiuta mentre voi volete la pace. Siamo con voi, ripete, non vi lasceremo mai è il concetto chiave. E descrive con profonda identificazione tutti i pericoli che vive un ragazzo fra gli attentati, Hezbollah, Hamas, la minaccia iraniana. Ed ecco il salto obamiano: «La pace con i palestinesi e con tutto il mondo arabo, non è un'opzione, è la condizione stessa della vostra sicurezza, è un dovere verso il vostro futuro e i vostri figli. La pace dovete raggiungerla perché è giusta... superate, spingete i vostri leader!». Da questo momento, Obama si è dedicato a una descrizione fantastica di quanto vi è in comune fra i ragazzi israeliani e quelli palestinesi, siriani, egiziani.
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