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La parabola di Erdogan: da aspirante sultano ad apprendista dittatore

Le piazze ribollenti di oltre 200 città della Turchia si spiegano con il rifiuto dello strisciante regime islamico

La parabola di Erdogan: da aspirante sultano ad apprendista dittatore

Fino a ieri era il Sultano. Adesso è il «Dittatore». Dopo 1700 arresti e un migliaio di feriti, cinque in condizioni critiche, a piazza Taksim lo chiamano così. Grazie a 72 ore di brutalità ed eccessi delle forze dell'ordine il premier turco Recep Tayyip Erdogan si guadagna lo stesso nomignolo riservato a Hosni Mubarak, Muammar Gheddafi e Bashar Assad. Erano tutti amici suoi. Leader a cui il «sultano» riservava abbracci, sorrisi e strette di mano. E da cui ha regolarmente preso le distanze trasformandosi nel paladino degli egiziani, nel difensore dei libici e nel «liberatore» della Siria. Ora però il premier convinto di poter rimettere in ordine non solo la Turchia, ma l'intero Medio Oriente, si vede ricader addosso quel nomignolo nefasto e indisponente.

Un po' se l'è cercata. Forte delle straripanti maggioranze conquistate dal 2012 Erdogan ha dimenticato gli elogi della democrazia per trasformarsi in un autocrate egocentrico ed autoreferenziale, insofferente alle critiche. Difetto confermato anche ieri quando - dopo due notti di sangue e scontri - Erdogan scarica tutte le colpe sull'opposizione e su una fantomatica «minaccia twitter». Accuse rilanciate dal fedele ministro degli esteri Ahmet Davutoglu prontissimo nel liquidare la protesta come un tentativo di danneggiare «la reputazione della Turchia». Per il premier «il responsabile di queste proteste è – invece - il principale partito d'opposizione che chiama in piazza le persone». E l'affondo contro contro i social network - usati a suo dire per attirare in piazza i dimostranti - è il «la» per una serie di dichiarazioni surreali, tanto simili a quelle dell'amico-nemico Bashar Assad all'emergere delle proteste siriane. Così - benché non vi sia traccia dei due manifestanti morti segnalati sabato da Amnesty International - dai fumi di piazza Taksim sembra riemergere il fantasma della Siria di due anni fa. Mentre Erdogan promette, come Mubarak, Gheddafi e Assad, di non voler scendere a patti, le sue vittime riportano in piazza per il terzo giorno consecutivo i ritratti di Atatürk, lo liquidano come un dittatore ottuso, accecato dal potere e dal riemergere del suo antico integralismo.

Dal solco degli alberi sradicati di Gezi Park tracima la rabbia per la legge dal sapore islamico che limita il consumo di raki e birra, emerge il risentimento per i sotterfugi con cui si è calpestata la Costituzione reintroducendo il velo femminile negli uffici pubblici, si diffonde lo sdegno per l'introduzione di un ministero degli affari religiosi riservato ai musulmani e indifferente alle minoranze cristiane, ortodosse ed alawite. E anche i recenti richiami all'educazione di una gioventù «pia e rispettosa» seguiti dalla riapertura delle scuole religiose per i bambini diventano, nei racconti di piazza Taksim, i segnali di un ritorno dell'Erdogan integralista incarcerato nel 1998 per istigazione all'odio religioso.

Un Erdogan assai lontano da quello favoleggiato da un Occidente distratto e disincantato. Abilissimo nel rilanciare l'economia e risollevare la Turchia dalla recessione d'inizio decennio, ma anche attentissimo nel riservare tutti i benefici delle privatizzazioni a una borghesia islamica trasformata in classe politica egemone. Una classe di potere che ha usato la mannaia giudiziaria per ingabbiare i militari laici e mettere a tacere giornalisti, intellettuali e oppositori. Ma mentre l'Occidente dormiva la Turchia si è risvegliata. E ha scoperto che i miracoli del boom economico e una crescita annua del 5 per cento non valgono la libertà.

Soprattutto se le alternative sono l'oscurantismo e l'integralismo islamico.

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