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La Serbia dei neonati spariti in cerca di giustizia dopo Tito

La Corte di Strasburgo dà a Belgrado un anno per fare luce sullo scandalo dei bambini dichiarati morti ma finiti in un cinico traffico di adozioni

La Serbia dei neonati spariti in cerca di giustizia dopo Tito

Si chiamava ancora Jugoslavia. I croati facevano finta di trovare simpatici i serbi, e questi i kosovari di etnia albanese. Per non dire dei bosniaci, capitale Sarajevo, che passava per città cosmopolita ed era invece bacata da un odio esplosivo che correva sotto la pelle di serbi croati e albanesi. Quella concordia di superficie era tutta una finta. Se avessero potuto, gli abitanti di quel Paese, comunista ma «non allineato» a Mosca, si sarebbero presi volentieri a fucilate fin dal dopoguerra. Come poi accadde anche tra gli abitanti dello stesso villaggio che fino a una settimana prima di quella infame stagione, cominciata nel 1991, pur essendo di etnia diversa, si sbronzavano insieme di rakia, cantando insieme le stesse canzoni nello stesso bar.

Era la Jugoslavia del compagno Tito, e poi del compagno Milosevic, quando il Partito era il Partito e alla sua ombra si poteva fare qualsiasi porcheria. Su tutti, vegliavano gli occhi gelidi dei funzionari dell'Ozna, il Dipartimento per la sicurezza del popolo. Fu in quegli anni, gli anni di Tito, forse più ancora che in quelli di Milosevic, che prese avvio il turpe commercio dei neonati.

Quale padre, quale madre, all'epoca, si sarebbe azzardato a far troppe domande a un primario, al direttore generale di un ospedale quando ti comunicavano, apparentemente affranti, che il bambino, la bambina, erano nati morti? Che dietro quelle strane morti, senza la restituzione dei corpicini, si celasse un sordido traffico illegale di adozioni, fu un sospetto a lungo coltivato, ma sottovoce, in tutto il Paese. Ma chi si sarebbe azzardato a ufficializzare il sospetto poteva stare sicuro di beccarsi una buona decina d'anni di carcere per disfattismo, se non peggio. Così, strappando il cuore a mamme e papà che non avevano santi in paradiso, campagnoli il più delle volte, una sordida sotto nomenklatura si arricchì, commerciando letteralmente in carne umana.

Ora però, si è detta Zorica Jovanovic, le cose sono cambiate, vero? Zorica è una delle madri -partorì nel 1983- che non vide mai il corpo della sua creatura. E ha fatto ricorso alla Corte Europea dei diritto dell'uomo, che ora glielo ha accolto. «Be', non è molto, ma è una notizia incoraggiante», mormora Zivan Agatonovic, pensionato 62enne di Kragujevac, nella Serbia centrale, che vide sparire misteriosamente il suo bambino subito dopo la nascita nel 1974. Agatonovic e la moglie Milka (58 anni) rappresentano oggi tutti i genitori serbi che hanno perso i loro bimbi. Perso, Zivan Agatonovic, il figlio non lo perse, dopo tutto. Ci mise anni, a ritrovarlo. Era a Belgrado, ma aveva ormai 28 anni, era cresciuto in un'altra famiglia, il «padre vero» gli sembrò, e lo era, un perfetto estraneo. Rimase dov'era. E Zivan che poteva fare, se non accettare col cuore colmo di dolore quella atroce decisione? «Noi non siamo interessati né ai soldi, né alla restituzione dei figli -dice Agatanovic-. Chiediamo solo che, sulla base dei documenti autentici, si riconosca che quei neonati scomparsi sono vivi, e si dica chi sono in realtà i loro veri genitori».

Quanto alle dimensioni di questa cupa vicenda, nessuno sa dire. Ma si parla di centinaia di casi. Così, rubando le vite degli altri, e vendendole a famiglie abbienti e a coppie sterili prive dei requisiti per l'adozione, molti capataz del partito comunista si facevano la villa in Montenegro, o mandavano i loro figli a sciare. I ladri di bambini allungavano le mani praticamente in tutto il Paese: da Kragujevac a Nis, ad Aleksinac, Soko Banja, Prokuplje, Belgrado. «Il suo bambino, la sua bambina non ce l'ha fatta», ti dicevano medici e infermieri con la stella rossa sulla loro tessera professionale. Ed era tutto. Niente corpo, niente luogo della sepoltura, nessun certificato di morte.

Andati, semplicemente, fra gli angeli del «paradiso comunista».

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