La Turchia si rimette il velo Lo Stato laico cede all'islam

Erdogan dà via libera a una serie di misure che vanno incontro alle minoranze e abbattono un divieto-simbolo imposto da Atatürk per secolarizzare la società

La Turchia si rimette il velo Lo Stato laico cede all'islam

Recep Tayyip Erdogan le chiama riforme, ma sulla strada che sostiene di aver disegnato per «condurre il Paese alla democrazia» c'è almeno un cadavere. È quello della vecchia Turchia laica e secolarista figlia di Mustafà Kemal Atatürk. Per assestarle il colpo di grazia il premier turco nasconde la stilettata fatale in un pacchetto di riforme destinato, a suo dire, ad abolire il settarismo, garantire la pace sociale e ad aprire alle minoranze, prima fra tutte quelle curde. In parte è anche vero. Cancellare le odiose regole che vietano l'utilizzo nei documenti ufficiali di qualsiasi nome contenente la Q, la W o la X - lettere impronunciabili e inutilizzabili perché parte dell'alfabeto curdo e non di quello turco - è senza dubbio un passo dovuto. Come lo è aprire all'insegnamento in lingua curda all'interno delle scuole private. O abbattere quella barriera del 10 per cento che impedisce a partiti di notevole rilevanza politica, tra cui quelli curdi, di accedere al Parlamento.
Dietro questo riformismo di facciata s'insinua però l'abolizione della norma che impedisce l'uso del velo negli uffici pubblici, ovvero di un legge simbolo della Turchia laica disegnata dal padre della patria. Dopo quell'abolizione il divieto resterà in vigore soltanto per poliziotti, giudici e militari. Troppo poco per continuare a parlare di sopravvivenza della cultura laica e non-confessionale. L'inserimento del provvedimento in un pacchetto di norme apparentemente riformiste è un'astuzia tipica del trasformismo in stile Erdogan. Un trasformismo che in questi anni gli ha permesso di dissimulare le sue origini fondamentaliste senza rinunciare al voto degli islamisti più conservatori e di far fuori gli oppositori interni senza attirarsi gli strali della comunità internazionale. Questa lunga e fortunata fase si è esaurita lo scorso luglio quando il «sultano» Erdogan, abituato ad imporre decreti e opere pubbliche, ha dovuto ricorrere ad una sfrenata svolta repressiva per sgomberare i manifestanti scesi in piazza a contestare le sue politiche arbitrarie ed autoritarie. E a rendere il tutto più difficile si sono aggiunti gli insuccessi della campagna siriana. Lì il sostegno di Ankara alle falangi fondamentaliste ha spinto Damasco e gi alleati iraniani a foraggiare le fazioni curde trasformando la frontiera turca in un pericoloso vespaio ed alimentando le ansie e i timori di un ritorno della Turchia al terrorismo e alla violenza politica.
Prigioniero dei suoi guai e contestato da una larga fetta dell'opinione pubblica Erdogan è dunque costretto ad accantonare le ambizioni da incontrastato «sultano» di un nuovo immaginifico «impero Ottomano» per rituffarsi nell'agone della politica quotidiana. Il primo appuntamento all'orizzonte è quello delle elezioni presidenziali del 2014. In passato il premier progettava uno scambio di ruoli - in stile Putin-Medvedev - con il fedelissimo Abdullah Gül parcheggiato dal 2007 nel palazzo presidenziale di Cankaya. Ma per realizzare lo spregiudicato giochino Erdogan deve innanzitutto recuperare consensi e preferenze. L'abolizione del divieto del velo è fondamentale per riconquistare il tradizionale elettorato islamista e convincerlo di aver consegnato al passato l'immagine laica e secolare del Paese.

La mano tesa alle minoranze curde punta invece a convincere i peshmerga del Pkk a rispettare i recenti accordi di pace evitando una loro perniciosa alleanza con quei curdi siriani che detestano Erdogan, combattono contro i gruppi islamisti armati da Ankara e si dicono pronti a valicare la frontiera per riportare la lotta armata sul suolo dell'odiata Turchia.

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