Crosetto si sfoga: "Siamo pessimi. Paese diviso persino sugli Esteri"

Il ministro della Difesa sconcertato dalle polemiche. Damilano ammette: "Pd e 5S? Sono due botteghe"

Crosetto si sfoga: "Siamo pessimi. Paese diviso persino sugli Esteri"
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Quello del ministro della Difesa, Guido Crosetto, è quasi un lamento. Dentro l'aula di Montecitorio le opposizioni processano il governo perché insieme a quello tedesco si è opposto alle sanzioni decise dalla Ue contro il governo di Netanyahu per la tragedia di Gaza. Lui che pure è stato chiaro nel dire che Israele la deve smettere con i massacri cerca di riportare un po' di «ratio» in un paese in cui la politica estera è diventata un argomento di polemica spicciola di schieramento. «Sulle decisioni dei governi di Italia e Germania - osserva - la Storia un po' pesa, sappiamo cos'è avvenuto novant'anni fa. Detto questo Netanyahu sbaglia: vuole sradicare Hamas ma i morti a Gaza alimentano Hamas». Insomma, la sua è una posizione articolata che però scompare di fronte alle polemiche al fulmicotone tra maggioranza e opposizione. Al punto che Crosetto rimarca un dato: «Siamo il peggior paese del mondo - si infervora -. Ci sono temi che dovrebbero unire il Paese. Sulle guerre in Ucraina e in Israele dovremmo chiuderci in una stanza, maggioranza e opposizione, e uscire con una posizione unica, condivisa. Invece niente, non si segue questa logica ma ci si divide in Parlamento. Alla fine non si inquadra la questione palestinese e sull'Ucraina non si individua il punto cruciale: non possiamo accettare la smilitarizzazione dell'Ucraina che equivarrebbe a regalare Kiev a Putin. In Parlamento ci sono solo polemiche e chi ci rimette è il Paese».

Come dargli torto. Il dramma di Gaza si trasforma nell'aula di Montecitorio nell'argomento di una gara tra Elly Schlein e Giuseppe Conte su chi grida più forte le parole «genocidio», «deportazione» contro Israele. Tanta retorica da offrire ai media che unisce la kefiah con il megafono, ma nessun risultato. Uno dei leader dei riformisti del Pd, Guerini, si rifugia nel silenzio: «Non mi fate parlare». Trent'anni fa ci sarebbe stato uno sforzo per raggiungere una posizione comune e dare forza a un'iniziativa del governo italiano. Oggi temi così delicati servono solo a polemizzare.

È il portato di un processo di radicalizzazione della sinistra teorizzato dagli uomini della Schlein. Una dottrina che ha spinto il Pd sull'altare del pacifismo disarmato ad assumere posizioni ambigue sul riarmo europeo. O ad essere succube della Cgil sui referendum: sul job act i piddini vivono la contraddizione di una campagna contro una legge varata da un esecutivo del Pd; su quello sulla cittadinanza addirittura Giuseppe Conte ha assunto una posizione più «trasversale» lasciando ai suoi elettori la libertà di scelta. La Schlein invece no, non ha dubbi, né lascia margini: «Queste battaglie e i referendum sono un modo per riaffermare che siamo a sinistra, che siamo espressione di quei mondi». Una vera e propria «dottrina» che si basa sulle vittorie negli anni di grillini, leghisti, meloniani: «L'estremismo - sillaba Matteo Orfini - vince». Sarà. Ma intanto domenica scorsa nelle elezioni che si sono tenute in alcuni Paesi europei la sinistra è sparita tra le forze che si sono contese il governo in Romania, Polonia e Portogallo: la competizione si è ridotta ad uno scontro tra formazioni di centro-destra e movimenti nazionalisti o di destra. L'ultima formazione di sinistra che si è imposta in un'elezione sono i laburisti inglesi di Starmer, ma su una linea opposta a quella del Pd. «Senza una scossa - ammette Marco Damilano uno degli intellettuali di riferimento della sinistra - c'è il rischio che l'epilogo delle prossime elezioni sia scontato». Epilogo che non è certo la vittoria della sinistra. «Il punto è che Pd e 5stelle si sono trasformate in due botteghe - dice un intellettuale molto ascoltato da Romano Prodi - che puntano al 30-33% per garantire i loro parlamentari senza nessuna ambizione di governo». Già, siamo passati dal «campo largo» al «recinto».

Al «recinto identitario» che punta solo a preservare le classi dirigenti. Ecco perché c'è addirittura chi immagina di anticipare le primarie per la scelta del candidato a Palazzo Chigi per tentare di mettere in piedi una proposta competitiva che apra, rompa il famigerato «recinto».

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