Cultura e Spettacoli

Esther Singer, l’angelo triste del Talmud

Fragile nel corpo e nella mente, schiacciata dalla personalità e dalla fama di due fratelli, scriveva in yiddish e sognava una vita migliore. Come la «Debora» del suo migliore romanzo

Esther Singer, l’angelo triste del Talmud

Immaginate una donna. Che sia poverissima. Che più di ogni altra fame senta quella dello studio e della scrittura. Che sia capace d’infuocarsi fino alla febbre per un’idea. Che detesti i lavori domestici e vi sia invece incatenata da un destino le cui radici sono più antiche e salde di qualsiasi argomento, da una madre che disprezza il proprio ruolo e da un padre inetto. Che racchiuda la sua forza in un ingegno infuocato e inquieto, incontrollabile ai limiti della patologia. Che non sia bella. Che non sappia e non voglia sedurre. Che sia costretta ad abbandonare l’unico uomo che abbia tentato di amare per darsi a un matrimonio di convenienza.
Immaginate una donna così. E riuscirete a sentirne la bruciante frustrazione, l’odio provato nei confronti delle «orribili donne che un tempo avevano provato tanto gusto a insegnarle l’arte di sfregare i pavimenti», l’ostinazione sorda che la rese goffa e afflitta, poi malata di epilessia, di ciclotimia, di crolli nervosi, di altri disturbi mentali da esorcizzare prima con altri pavimenti da sfregare e poi con il matrimonio. Questa donna ha almeno due nomi. Il suo alter ego letterario è Debora e la sua storia è narrata nel romanzo omonimo appena tradotto da La Tartaruga (pagg. 408, euro 17,50). La donna vera invece - l’autrice - si chiama Esther Singer Kreitman, ebrea polacca figlia di un rabbino, nata a Bilgoray nel 1891, scrittrice in yiddish per scelta e per destino, sorella maggiore di un premio Nobel per la letteratura, Isaac Bashevis Singer, e di un romanziere non meno popolare, Ysrael Yoshua Singer.
Di Esther Singer è giunto sino a noi un ricordo così sbiadito da risultare inconsistente. I suoi romanzi, Debora (pubblicato per la prima volta a Varsavia nel 1936 con il titolo La danza dei demoni), Brilyantin (’44) e la raccolta di racconti Yikhes (Genealogia, 1950) tradotti e stampati entrambi a Londra grazie al figlio Maurice Carr (pseudonimo di Morris Kreitman, anch’egli divenuto scrittore con il nom de plume Martin Lea), sono ignoti al grande pubblico e anche ai critici che non si occupino di letteratura yiddish.
Per richiamare la figura di Esther occorre fare appello a ciò che di lei ci hanno trasmesso le opere del fratello Isaac. Esther è la Yentl del racconto omonimo, la ragazza che si traveste da uomo per studiare all’accademia talmudica, la scuola superiore rabbinica che nel mondo ebraico tradizionale è regno esclusivo degli uomini. Nell’autobiografia di Isaac, Alla corte di mio padre, così come in quella del fratello Yoshua, Un mondo scomparso, Esther è lo «khassid (il pio, l’ortodosso) in gonnella», posseduta da un dibbuk, l’anima dannata di un defunto che s’impossessa del corpo di una donna e parla e agisce tramite lei. Nel ricordo dei fratelli, Esther è una donna intelligente, sognatrice, ambiziosa.
Che Esther-Debora fugga, disonori la tradizione, ammaliata dai bagliori della mondanità: questo teme la famiglia Singer e questo rivela di se stessa Esther nel romanzo autobiografico. Tanto che in alcune pagine le inquietudini di Debora sono quelle di Madame Bovary: qui Varsavia, là Parigi, ma le luci, l’eleganza e l’armonia della gloria, magici antidoti alla miseria e alla banalità del quotidiano, sono gli stessi. Tuttavia, una sorella, una donna «diversa» è sopportabile finché la sua «originalità» rimane confinata al desiderio di studiare il Talmud. Altrimenti, il suo destino è segnato, perché una donna senza famiglia e senza tradizione non è nulla, come dimostra la reazione di Isaac alla trasposizione cinematografica di Yentl ad opera di Barbra Streisand: «La signora Streisand ha immaginato che Yentl, la cui unica passione era la Torah, s’imbarcasse per l’America, cantando a squarciagola» lamentò il Nobel al New York Times.

«Ma perché Yentl avrebbe dovuto andare in America? Non c’erano abbastanza scuole rabbiniche in Polonia o in Lituania? Che cosa avrebbe fatto, una volta laggiù? Lavato i piatti per dodici ore al giorno? Sposato un commesso viaggiatore? O, peggio, preso in affitto un appartamento a Brooklyn, con frigorifero e montavivande?».

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