Mahmoud Ahmadinejad insiste. Dice che Israele è la causa di sessant'anni di «massacri, crimini e conflitti» e che va «sradicato». Per rilanciare la sua minaccia sceglie il giorno in cui Kofi Annan a Beirut viene contestato dai militanti di Hezbollah, lo stesso giorno in cui prende ufficialmente il via la missione italiana in Libano. Ricorda così la vera novità della crisi mediorientale, cioè la sfida che Teheran ha lanciato ad uno Stato che dichiara di voler cancellare con la forza, la versione fondamentalista del vecchio «rifiuto arabo».
Ma c'è anche un'altra coincidenza. Massimo D'Alema, nella lunga intervista concessa laltro giorno al Corriere, nella quale ha annunciato che grazie alla sua politica estera «siamo tornati al multilateralismo, l'Onu è protagonista, l'Europa al centro, l'Italia è tornata sulla scena», ha citato Ahmadinejad solo per dire che la popolarità del presidente iraniano è stata accresciuta dalla scelta di isolarlo sul piano internazionale. Non ha preso in considerazione una minaccia che ha un solo precedente, quello del 1990, quando Saddam Hussein cercò di cancellare il Kuwait dalle carte geografiche.
Nessuno può pensare che il ministro degli Esteri ignori il problema, anzi certamente lo conosce fin nei minimi dettagli. C'è allora da chiedersi perché ci sia una tale sottovalutazione nel momento in cui egli enuncia la nuova strategia italiana in Medio Oriente. Si possono cercare diverse risposte, a cominciare da ragioni di politica interna. La principale ragione di questa omissione consiste però in un assunto tutto ideologico: il governo dell'Unione continua a caricare la missione in Libano di un significato che non ha, cioè la fine dell'unilateralismo e, contemporaneamente, il ritorno dell'Onu e dell'Europa ad un ruolo centrale nel sistema delle relazioni internazionali. È l'assunto secondo il quale tutti i guai del mondo sono iniziati con la risposta data dall'amministrazione Bush all'11 settembre.
Non è il solo D'Alema a testimoniarlo nelle sue enunciazioni. Romano Prodi, parlando alla partenza della flotta, ha usato parole francamente fuori misura, definendo la missione «di enorme portata storica», con almeno un aggettivo di troppo. Se la portata è «storica» che bisogno c'era di aggiungere quell'«enorme»? Ma evidentemente il presidente del Consiglio ha smarrito il senso del limite, coinvolto in quella strana eccitazione collettiva, per cui anche Clemente Mastella è diventato sostenitore del ritiro dall'Afghanistan, come un qualsiasi Caruso. Un'eccitazione tutta italiana e tutta interna ai confini del centrosinistra. In questo caso è più credibile la prudenza di un leader come Jacques Chirac, che ha maggiori titoli di D'Alema e Prodi in quanto critico dell'unilateralismo americano (lo fu anche quando alla Casa Bianca sedeva Bill Clinton), il quale ha ricevuto perfino l'apprezzamento del Monde nel giudicare l'Europa «troppo assente dalla crisi libanese», incapace di coordinare i suoi sforzi e di pesare.
Un po' di prudenza non guasterebbe. Intanto perché il vecchio continente svolgerà, nell'Unifil, nient'altro che il suo sperimentato e tradizionale ruolo di interposizione, come nella ex Jugoslavia e altrove. Poi perché la missione è solo all'inizio e il senso della sua portata lo si giudicherà solo con i risultati che si otterranno e che, grazie all'egida dell'Onu, si misureranno anche nei rapporti con Teheran.
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