Se esci il 24, «stai fuori» tre giorni, e se esci il 31, «stai fuori» due giorni. Tradotto in italiano: i quotidiani del 24 dicembre valgono (si fa per dire) per tre, e quelli del 31 valgono (si fa sempre per dire) per due. Ne deriva che firmare un pezzo sui numeri del 24 o del 31 dicembre, nella mente bacata di alcuni giornalisti, è una sorta di privilegio, di premio aziendale, di seconda tredicesima. Non vi dico quando il pezzo parte in prima pagina. Ho visto gente correre a casa con il panettone in una mano e la bozza (da mostrare con inutile orgoglio all’amante) nell’altra, o, peggio, bighellonare in tipografia, verso mezzanotte, con la scusa di fare gli auguri, ma sbirciando insistentemente sul tavolo del proto per assicurarsi che la propria firma comparisse in «copertina».
Spettacoli poco edificanti, vi assicuro. Ma niente, in confronto a quanto accaduto a un collega (non del Giornale, lo dico subito a scanso di equivoci - però non rivelo di quale testata, perché devo tutelare, oltre al buon nome del collega, anche le mie fonti). Quel che segue è un breve resoconto dei fatti. Un avvertimento: uso il presente storico: anche il tempo deve risultare anonimo.
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A. Z. (chiamerò così il nostro eroe, con la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto) lavora alla redazione culturale de OMISSIS. Generalmente si occupa di OMISSIS, ma quel giorno, il 30 dicembre del 2..., stante le ferie di uno, la malattia, molto presunta, di un altro e la maternità di una terza, viene messo su un pezzo di «nera». Nulla di particolare. Per dirla tutta, roba che, in un giorno normale, sarebbe valsa al massimo 40 righe in cronaca. Un barbone pestato a sangue da tre ragazzotti ubriachi; se la caverà, ma è messo male.
Z., professionista esemplare, con un paio di telefonate condisce lo scarno mattinale della Polizia e fa lievitare il tutto a 60 righe. Così facendo, si è guadagnato l’apertura di una pagina: è già qualcosa. Ma a Z. non basta. E in meno di un’ora butta giù l’intervista esclusiva al poveretto. Inventata di sana pianta, ovvio, perché la vittima, avendo la bocca spappolata, non può usarla che per sorbire a fatica un po’ di tè con la cannuccia, in ospedale. Peggio per lui, e meglio per Z. il quale, dall’apertura di pagina in cronaca passa all’apertura di pagina nell’edizione nazionale. Di bene in meglio.
Tuttavia Z. non è ancora soddisfatto. Anni e anni di grigie recensioni e di noiosissime inchieste sul mondo dell’editoria e sui mali dei beni culturali hanno acceso in lui (soltanto ora se ne rende conto, rileggendo e limando domande e risposte taroccate) il sacro fuoco della Letteratura, dell’Arte. Dietro quel fatto d’ordinaria amministrazione egli percepisce l’ombra furtiva del Romanzo. Di più, del Capolavoro. Pensa ai racconti di Scerbanenco e a quelli di Poe. Pensa a Truman Capote e al suo A sangue freddo, alle Diaboliche di Barbey d’Aurevilly. Di più, divorato dall’ambizione, pensa addirittura a Delitto e castigo di Dostoevskij.
Così, oltre all’intervista, Z. confeziona il retroscena da prima pagina: uno dei tre assalitori del barbone è nientemeno che... il suo figlio illegittimo. Lo rivela un amico del barbone, il quale consegna a Z. l’asso che fa saltare il banco: una vecchia fotografia in bianco e nero (in realtà pescata dallo scatolone dei ricordi, quello in alto, sopra l’armadio) in cui si vedono un uomo sui trent’anni e una bellissima ragazza che tiene in braccio un frugoletto. Quel frugoletto, assicura l’anonimo amico del massacrato, è OMISSIS, di anni OMISSIS, disoccupato, figlio, per l’appunto, del suddetto massacrato e di quel gran pezzo di OMISSIS che oggi (per chi legge) avrà superato i sessanta.
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«E la foto dov’è?». Il caporedattore è già su di giri.
«Come dici?».
«La foto no? Senza la foto come si fa?».
«Cristo, la foto! Hai ragione OMISSIS. L’ho scordata a casa. Sai, nel casino di questo pomeriggio...».
«Muoviti, allora. Corri a casa a prendere ’sta foto. Sono già le sette. I pezzi li hai finiti tutti e due, almeno?».
«Sì, sì, i pezzi sono a posto. Ottanta righe sull’aggressione e la foto e sessanta righe d’intervista».
«Ma lui lo sa, vero, che è stato suo figlio a pestarlo?».
«Be’... no. Quando ho fatto l’intervista non lo sapevo ancora nemmeno io...».
«Ma testa di OMISSIS che non sei altro! Rimetti subito a posto l’intervista rivelandogli la cosa e bla-bla-bla. Ma perché io devo lavorare con un cretino simile! Svelto, idiota. E poi fila a casa a prendere la foto! Se non torni per le nove, non solo non vai in prima, ma ti sbatto ai necrologi!».
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«Ecco la foto».
«Oh, era ora! Quanto ci hai messo? Avanti, portala giù, ché la mettono in prima bella grossa. Ah, già che ci sei, fammi anche il titolo, va’. Questa sera anche gli esteri mi stanno facendo dannare. E poi c’è la partita della nazionale, porca OMISSIS».
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Dalla prima pagina de OMISSIS del 30 dicembre 2...
Titolo:
«Barbone ridotto in fin di vita dal figlio. L’aggressore: “Non l’ho riconosciuto”».
Catenaccio:
«OMISSIS, 66 anni, è stato assalito da tre teppisti. Ecco la fotografia risalente a trent’anni fa in cui uno degli aggressori compare con il padre e la madre».
Occhiello:
«Natale di sangue a OMISSIS».
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La mattina del 31 dicembre 2..., verso le 9, un rabbioso squillo di telefono manda in frantumi il silenzio di tomba che avvolge l’appartamento di A. Z. Ce ne vogliono altri sei prima che il giornalista trovi la forza di alzarsi, percorrere i cinque metri che lo separano dall’apparecchio e sollevare la cornetta.
«Chi è?», farfuglia Z. con la bocca impastata di sonno, fumo e vino.
«Sono la zia Luciana e volevo dirti solo una cosa...».
«La zia Luciana? Quale zia Luciana? Io non...».
«Sì la zia Luciana, criminale che non sei altro! Ti dico solo una cosa. Da me e dallo zio Franco non ti aspettare nemmeno un centesimo quando, con tua somma gioia, ce ne saremo andati. Hai fatto una cosa orrenda, orrenda (il pianto incrina la voce della zia, ndr)... farci fare una figura simile... Solo per andare in prima pagina».
«Ascolta, zia, credevo che...».
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La zia Luciana, che in quelle ore alcune centinaia di migliaia di persone credevano essere la compagna del povero OMISSIS e la madre illegittima di uno che aveva sfiorato una ventina d’anni di galera per omicidio volontario, era sorella gemella di Lorena, morta tre anni prima con il marito Guido in un incidente stradale. Z. le confondeva sempre, anche da bambino. Anche alle feste di Capodanno.
Daniele Abbiati
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