nostro inviato a Pechino
Non so il cinese. Però pensavo, prima di imbarcarmi sul volo per Pechino, che con l'inglese me la sarei cavata. O non è, l'inglese, la lingua franca del business, del turismo, del pop, del jazz e del rap, insomma del nostro pane quotidiano globale? È sempre andata così, del resto: da Mogadiscio a Timor Est, dal Baluchistan a Seul, da Gaza a Kabul. Parlo di quell'inglese elementare, quel pidgin english alla portata di qualsiasi tassista: day, night, good morning, bar, toilet, left, right. Le volte che l'inglese non ha funzionato ho fatto sempre ricorso alla mimica, alla gestualità. Chi ci batte, a noi italiani, in fatto di mimica e gestualità? Ecco: in Cina non funziona. Sorry.
Oggi, per esempio, ho chiesto a un signore un'informazione stradale. Ero nel quartiere di Fuxingmen. Volevo andare in direzione di Changchunije. Avevo la cartina e con la biro indicavo i due punti: dove eravamo e dove volevo andare. Poi ho alzato la biro in aria, puntandola nella direzione che mi sembrava corretta. I miei occhi dicevano: è giusto? Il tipo mi ha osservato allocchito, ha spostato lo sguardo sulla biro e lentamente, con la cautela di chi non vuol essere sgarbato ma non capisce a che gioco giochiamo, mi ha tolto la biro dalla mano e si è messo a ridere come un matto. Ho riprovato in albergo, con una giovane volontaria addetta alle Olimpiadi, una di quelle che dovrebbero aiutare la stampa estera. Una domanda facile e biro puntata verso il ristorante. Un momento dopo la biro era nelle sue mani. Lei rideva e diceva come un uccellino: «What?».
Chi ha più di cinquant'anni ricorderà un modo di dire caduto un po' in disuso: «Un affare cinese». Si diceva di un oggetto, di un fatto incomprensibile, di una sciarada. L'«affare cinese» era il mistero per definizione. Una cosa che comunque la giravi non riuscivi a decifrare. Ora so qual è l'origine di quel modo di dire.
Come molti giornalisti italiani, ho una camera al Poly Plaza hotel. Nome facile, vero? Infatti già dal primo giorno sono stato sull'orlo di una brutta crisi di nervi. Avevo detto al tassista: «Poly hotel». Una corsa da sei, sette minuti. E lui, d'impeto: «Yes!». Avrei imparato presto che il cinese non dice mai «no». Gli sembra sgarbato. Trentotto minuti dopo, mentre vagavamo verso la periferia ovest, io stavo facendo a pezzi un giornale, ricavandone delle pallottole che scagliavo con rabbia fuori dal finestrino, mentre il tassista, con la mano destra, si schiaffeggiava, ululando cose tremende, credo, alternate a un sommesso rosario di autorimproveri. Poi, all'improvviso, un lampo. Mi guarda e fa: «Polì», con l'accento sulla i. Io mi stringo nelle spalle. Lui parte a razzo e mi porta a casa. Ma anche dire «Polì» talvolta non basta. Alcuni pronunciano «Polìe», e ingranano la prima solo quando arrotoli per bene la «e».
Inutile, ho scoperto, fare il gesto di chi ha fame e pretendere, con questo, di soddisfare il relativo, elementare bisogno. Come facciamo noi per dire cibo, ristorante, mangiare? Riuniamo le cinque dita della mano in un punto e ce la portiamo verso la bocca, agitando la mano suddetta avanti e indietro. Niente da fare. Mi guardavano facce di marmo, fronti corrugate in sforzi titanici.
E tutto questo, ho capito dopo, perché i cinesi mangiano con le bacchette prelevando (tradizionalmente) il cibo da una tazza; e la mano con le bacchette viene alla bocca seguendo un'altra traiettoria, se ci fate caso. Sto dicendo che i cinesi non sono perspicaci? Sì, sto dicendo questo. Noi siamo pieni di altri difetti, per carità, chi lo nega.
Nel ristorante chic del nostro albergo, l'altra sera, è andato in scena un altro sketch che sembrava preso di peso da Lost in translation, film con Bill Murray e Scarlett Johansson sullo straniamento indotto da una cultura agli antipodi, da una lingua sconosciuta. Dunque: cameriere in tailleur nero e tacchi alti, come managerine, o come per andare a una festa col sultano del Brunei. Silenzio ovattato. Moquette alta due dita. Totale dei clienti: quattro. Chiediamo (noi siamo in due) un «pesce mandarino». È nel menù. Dopo quaranta minuti anche il collega Stenio Solinas, di solito imperturbabile e flemmatico come un notaio del Devonshire ha l'occhio destro sconvolto da un tic. La ragazza in tailleur è completamente in bambola. Inglese: zero virgola. Cerca di dirci qualcosa, ma che cosa sia nessuno lo sa. Arrivano le altre. Gesti, parlottio, consultazioni allargate. L'«affare cinese» proietta la sua ombra malvagia su di noi. La ragazza voleva dirci, si capirà un bel po' dopo, che la preparazione sarebbe stata piuttosto lunga. Alla fine trova le due parole che le mancavano: «Twenty minutes», venti minuti. Ma da quando? chiede il collega: da ora, o da quando è cominciata la discussione? Il dramma ricomincia. Lei non ha capito la domanda, ma le sembra scortese allontanarsi. Sta lì a guardarci, a guardarsi la punta delle scarpe. Le viene da piangere. A noi pure.
Dopo una settimana di nuvole, a Pechino è tornato il sole. Dunque le cinesi hanno tirato fuori gli ombrelli. Migliaia e migliaia di ombrelli da qui alla Tienanmen. Ma come: ora che c'è il sole? Esatto. Le donne cinesi detestano l'abbronzatura. Il viso, le carni devono essere esangui. Il pallore cadaverico, da coniglio scorticato, fa status. L'abbronzatura è delle poverette che curvano il groppone nei campi. Sorrido, indicando al ragazzo che sorveglia la porta dell'albergo lo spettacolo di ombrelli che sfila sulla Dongzhimenwai Dajie. Lui: «Vuò compla 'mblella?». No. Volevo dire... Intervengono altri tre ragazzi della reception e due hostess del Circo Olimpico. Discussione pazzesca. Che dannazione voglio? si chiedono le facce. «Story qui vicino», dicono. Story? Che storia? Ma volevano dire «store», negozio, magazzino.
Scappo in strada, sparando parolacce tremende. Passa una ragazza con gli occhiali. Una studentessa, sembra. Domando: «Sa dov'è il ristorante Dadong Kaoja?». «Yes». È lontano? «Yes». Molto lontano? «Yes». O vicino? «Yes».
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