A forza di denunce e di proteste Elio Lannutti è arrivato in Senato. Non una, ma due volte e in due partiti diversi: prima nell'Italia dei valori di Antonio Di Pietro, oggi nel Movimento Cinque Stelle. E da grillino osservante il fondatore e presidente onorario dell'Adusbef passa il suo tempo lanciando anatemi attraverso i social: «Ventriloqui del potere dei manutengoli con la bava alla bocca», ha scritto di recente in un ragionato commento via Twitter, dedicato ai giornali che avevano parlato dei lavoratori in «nero» nell'impresa del vice-premier Di Maio.
Insieme a Carlo Rienzi, presidente del Codacons, più volte candidato alle elezioni (mai eletto) e arrivato a mettersi pubblicamente in mutande per protestare contro il carovita, Lannutti rappresenta il coté più mediatico del consumerismo italiano: sempre pronto a una dichiarazione d'occasione in tv, a una manifestazione clamorosa, a un esposto piazzato con cura (indimenticabili quelli contro l'intera finanza mondiale presentati alla Procura di Trani).
È lui a rappresentare la rumorosa avanguardia di decine, c'è chi si spinge a dire centinaia, di associazioni che utilizzando la parola «consumatore» cercano spazio e attenzione presso l'opinione pubblica. Il loro vangelo, citato a ogni piè sospinto, è il Codice del Consumo, la summa normativa, approvata nel 2005, che regola i rapporti tra aziende, clienti ed utenti. Il faro sono, o dovrebbero essere, i diritti stabiliti dall'articolo due dello stesso Codice: prima di tutto la «trasparenza». Una trasparenza, che spesso sono le associazioni per prime a dimenticare.
Grandi e piccoli
L'organismo rappresentativo delle associazioni consumeriste italiane si chiama Consiglio nazionale dei Consumatori ed Utenti, in sigla Cncu. È una specie di parlamentino del settore, costituito presso il Ministero per lo Sviluppo economico. Per entrare a farne parte un'associazione deve avere tre anni di attività alle spalle, essere presente in almeno cinque regioni e schierare un numero di soci pari almeno allo zero virgola qualcosa della popolazione italiana. In pratica, in base ai calcoli del Ministero per il 2017 la soglia è fissata a 29.970 iscritti.
Le associazioni che fanno parte del Cncu sono attualmente 20 e c'è un po' di tutto: si va dal colosso Altroconsumo (377mila soci) a una pletora di piccoli organismi, molti appena al di sopra del numero magico dei 29.970 associati. Chi fa parte del Consiglio (ogni ente rappresentato esprime un componente effettivo e un supplente) entra in una sorta di serie A del settore: può esprimere pareri sulle leggi e i regolamenti in fase di elaborazione, avanzare proposte che riguardano il consumo. In più ha la possibilità di concorrere per i finanziamenti statali legati a singoli progetti (le somme sono più ridotte di un tempo, quest'anno il bando in scadenza ha un ammontare di 4,5 milioni di euro). I partecipanti possono anche entrare a far parte delle Commissioni di conciliazione paritetica con le aziende previste dalle norme. Assistono cioè i consumatori che cercano un accordo extragiudiziale con le aziende con cui hanno una controversia. E per questo tipo di prestazione ricevono un corrispettivo che va dai 30 ai 60 euro a pratica.
È questo tipo di rapporti che non piace a un'associazione come l'Aduc, sede nazionale a Firenze, che ha una particolarità, è l'unica tra le grandi (i soci dichiarati sono più di 133mila) che per scelta ha deciso di non aderire al Cncu: «Ci troveremmo a lavorare con il ministero dello Sviluppo Economico e con aziende che spesso sono controparte nelle nostre iniziative. La cosa non ci piace», spiega il presidente Vincenzo Donvito. «Poi siamo contrari a ogni tipo di finanziamento pubblico, perfino al cinque per mille. Siamo per un autofinanziamento totale. Ufficialmente le somme assegnate dal Ministero sono legate a bandi che parlano di progetti specifici, di solito campagne informative. Ma poi noi di questi progetti non vediamo traccia. In realtà si tratta di sostegni economici a strutture associative per il solo fatto che esistono. E il peggio avviene a livello locale».
I soldi delle regioni
A dare soldi ai rappresentanti dei consumatori sono infatti anche Regioni e Comuni. Anzi, dopo la riforma del Titolo Quinto della Costituzione le Regioni sono diventate protagoniste in materia, e ognuna ha stabilito i requisiti che le associazioni devono avere per essere riconosciute a livello locale. Con il riconoscimento arrivano anche i fondi, e in quasi tutti i casi per avere l'uno e gli altri l'associazione deve avere un numero minimo di sedi fisiche sul territorio regionale. «È il criterio che premia gli enti vicini ai sindacati», spiega un addetto ai lavori. «Prenda la Cgil, ha uffici dappertutto. E in ogni sede troverà una stanzetta della Federconsumatori». Anche per questo l'associazione è la terza riconosciuta per numero di iscritti con oltre 76mila soci, mentre, nonostante la capillare presenza sul territorio dei sindacati di riferimento, restano più indietro Adoc, legata alla Uil (quasi 38mila), e Adiconsum, legata alla Cisl (34mila).
Quanto alle associazioni, per così dire, private, le sedi locali sono l'ultimo dei problemi. Adusbef dichiara per esempio 175 uffici decentrati, il Codacons tra i 140 e i 150. «Io ho la fila di avvocati che si offrono di ospitare un nostro ufficio», dice Donvito di Aduc. La convenienza è duplice ed evidente: l'associazione non sostiene costi aggiuntivi e allarga il suo network nazionale, il professionista ospitale può affacciarsi su un business con prospettive economiche interessanti.
«Con questo sistema però a non essere premiata è la qualità del lavoro svolto a favore di consumatori», dice Luisa Crisigiovanni, segretario generale di Altroconsumo. «Noi, per esempio, non siamo ufficialmente riconosciuti in alcune Regioni in cui pure abbiamo molti soci, perché riteniamo più utile operare in prima battuta con un call center nazionale».
Sia per quanto riguarda le sedi sia quando si parla di finanziamenti pubblici (oltre a quelli statali e regionali ci sono i bandi europei) l'osservatore esterno fa comunque fatica ad orientarsi, perché i bilanci delle associazioni restano di solito un segreto ben custodito. Sono poche le associazioni di consumatori che mettono a disposizione documenti contabili rivolti all'esterno con l'indicazione dell'attività svolta e dei fondi pubblici ricevuti (di solito c'è anche il finanziamento dei contribuenti sotto forma di 5 per mille sulle tasse). E le richieste di chi vuole approfondire i numeri si trasformano quasi sempre in faticosi bracci di ferro con la nomenklatura delle associazioni interessate. Quanto al Ministero dello Sviluppo economico, che sovrintende all'attività del già citato Consiglio nazionale, la legge gli attribuisce la verifica del numero dei soci, ma non altri poteri di controllo.
La situazione è dunque quasi paradossale: le imprese commerciali private, spesso oggetto delle rampogne dei paladini dei consumatori, sono obbligate per legge a dare conto pubblicamente della loro attività, con bilanci di immediata lettura, depositati nelle Camere di Commercio e disponibili via Internet. Al contrario per le associazioni di consumatori, portatrici di interessi collettivi e, come abbiamo visto, spesso destinatarie di fondi pubblici, non è previsto un meccanismo di diffusione dei conti: le case di vetro finiscono per avere strutture più opache delle loro controparti.
Riforma al palo
Per dirla tutta il deficit di trasparenza non riguarda solo chi si occupa di consumo ma l'intero mondo delle associazioni, e in generale del non profit. Un economista come Stefano Zamagni, docente universitario ed ex Presidente dell'Agenzia per il terzo settore si batte da anni per norme che offrano un maggiore controllo: «La svolta c'è stata: il 2 agosto del 2017 il Parlamento ha approvato il Codice del Terzo settore con l'istituzione del Registro unico nazionale a cui enti e associazioni non profit dovranno iscriversi». Il Registro sarà una sorta di anagrafe accessibile a tutti dove dovranno essere resi pubblici i dati che riguardano organismi di volontariato ed enti di promozione sociale, compresi i rendiconti economici. «C'è un solo problema», conclude Zamagni. «A più di un anno dall'approvazione delle norme non si sa bene che fine abbia fatto il regolamento applicativo dedicato al Registro, che non è ancora partito».
Nell'attesa dei tempi biblici della burocrazia italiana e di più trasparenza la lotta per la tutela dei consumatori continua. Da quando John Kennedy, il presidente ucciso a Dallas, presentò di fronte al Congresso Usa il primo Manifesto per i diritti dei consumatori sono passati 56 anni.
Se possibile nel frattempo le minacce sono aumentate: l'ultimo grande caso internazionale riguarda le accuse mosse dal Beuc (il Bureau Européen des Unions de Consommateurs) un network di associazioni che rappresentano i consumatori di mezza Europa, contro il colosso Google.
Il colosso americano non avrebbe rispettato l'ultima direttiva di Bruxelles sulla privacy, raccogliendo informazioni improprie sugli spostamenti, le abitudini e le località frequentate dagli utilizzatori del motore di ricerca Viste le multe previste (fino al 4% dei ricavi) e le dimensioni di Google, si parla di cifre miliardarie.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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