Cultura e Spettacoli

Federico II il re cacciatore

«Egli è la bestia che sorge dal mare carica di nomi blasfemi e, infuriando come l’orso, il leone e il leopardo, spalanca la bocca ad offesa del Santo Nome». Il pontefice ha rotto gli indugi. In questa enciclica di metà anno del Signore 1239, Gregorio IX addensa gli strali per colpire il suo nemico, il Nemico della Cristianità tutta: «Egli scaglia la sua lancia sul tabernacolo di Dio e sui Santi che abitano nei cieli». Va schiacciato una volta per tutte.
A essere scomunicato come Anticristo era un uomo di quarantacinque anni, re di Sicilia a quattro anni, di Germania a diciotto e imperatore da diciannove stagioni. Era il nipote di Federico I e figlio di suo figlio Enrico VI. La corona siciliana l’aveva ereditata dalla madre Costanza, l’ultima degli Altavilla, i normanni signori un tempo dell’Italia meridionale. Le più nefande sconcezze si dicevano sul suo conto: non era forse nato da una monaca, strappata a forza dalla quiete del chiostro per le brame del tedesco? Qualcuno si spingeva a dire che s’era trattato di un finto parto, inscenato nella pubblica piazza di Jesi, in quel 26 dicembre del 1194. Egli sarebbe stato quindi, in realtà, un plebeo spacciato per sangue blu da parte d’una figlia postuma di re - il normanno era morto qualche mese prima che Costanza vedesse la luce, nel 1154 - e sclaustrata.
Dicerie, soltanto dicerie. Echi popolari degli anatemi pontifici. E quanti ne avrebbe collezionati! Il primo era arrivato nel 1227, quando s’era rifiutato di procedere per la crociata, così a lungo promessa e sempre rinviata. Certo, era già salpato da Brindisi ma un’epidemia aveva falciato l’esercito e lui era tornato indietro. Il papa non gli aveva creduto, e l’aveva scomunicato. Nel 1230 c’era stata la rappacificazione e lui s’era dedicato con più cura agli interessi imperiali in Germania e in Italia del Nord: e s’era vista la battaglia di Cortenuova nel 1237, una Legnano al contrario, quando la seconda Lega Lombarda era caduta sul campo vicino a Bergamo per mano dell’imperatore. Era così arrivato il secondo anatema, quello del 1239, dove lo scontro tra i due massimi poteri della Cristianità raggiunse il calor bianco: lo definivano Anticristo e lui rispondeva indicando nel papa romano «il fariseo assiso sulla cattedra di un dogma perverso, unto con l’olio della malvagità» e ribaltava le accuse: «Noi sosteniamo che è lui quel mostro di cui si legge». Perché lui era piuttosto «il salvatore inviato da Dio, il principe della pace, il messia-imperatore», come lo dipingeva Pier delle Vigne, il notaio e giudice della Magna Curia, la «Grande Corte» istituita dall’imperatore per rendere grande il suo potere.
L’ultima scomunica gli sarebbe giunta nel 1245, da quel concilio ecumenico che aveva sino ad allora impedito: aveva chiuso le strade che portavano a Roma, aveva ucciso e arrestato i padri conciliari che rispondevano all’appello del pontefice, perché quel concilio non s’aveva da fare. Anche il papa ne era morto, di dolore e di costernazione. Ma a succedergli fu un uomo ancor più determinato, Innocenzo IV, che si spostò a Lione, fuori dal controllo imperiale. E lì venne pronunciata l’ultima scomunica, e la deposizione: «Rendiamo noto e proclamiamo che questo principe è stato rigettato da Dio per le sue iniquità e privato di ogni onore e dignità. Pertanto liberiamo per sempre dal giuramento di fedeltà quelli che erano legati a lui...».
Era il sigillo della sconfitta: suo figlio Enzo, re di Sardegna, finiva nelle mani del papa, mentre una congiura strisciava ai piedi del trono imperiale. Attorto dalle spire del sospetto cadde persino Pier delle Vigne, suicida nella prigione di S. Miniato. L’imperatore però era sopravvissuto, pieno di un’incredibile vitalità. Così, nel 1248 pose l’antica alleata Parma sotto assedio, erigendole in faccia una nuova città dal nome beneaugurale, Victoria. Ma fu sconfitto, un giorno che s’era distratto per cacciare. Amava infatti la caccia, soprattutto con il falcone: sin dalla più tenera età osservava, indagava, scrutava i misteri della natura per comporre un’opera mirabile e valida ancor oggi, L’arte di cacciare con gli uccelli, primo esperimento di un critico di Aristotele. Perché lui amava leggere e parlare in sei e forse sette lingue, discutere con filosofi e religiosi, circondarsi di teste fine e poeti, trattare alla pari con il sultano d’Egitto, fondare università di diritto e di medicina, spostarsi da una sponda all’altra del Mediterraneo e delle sue religioni.
Perché lui, Federico II di Hohenstaufen, padre di tutti i ghibellini, era l’ultimo grande imperatore medievale, eppure già prefigurava in sé un evo nuovo e tremendo, dove il principe sarebbe stato lex animata, «legge vivente», radice dello Stato assoluto e tramonto del Medioevo.

Ma quando chiuse gli occhi per sempre - e ancora una volta, stava cacciando - nell’amata Puglia, a Castel Fiorentino, l’anno era il 1250, e il Medioevo non ancora finito.

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