Ferite e ricordi Gli ultimi giorni di Rimbaud

Philippe Besson: un inedito ritratto del poeta francese in un immaginario diario della sorella Isabelle

Ferite e ricordi Gli ultimi giorni di Rimbaud

Le donne non ci capiscono. Giovani pigri, asserviti all’assoluto e alla delicatezza, precocemente invecchiati, ci affidiamo alle uniche cose che alla fine sappiano darci: un po’ di cura, un po’ di ascolto... Ho circumnavigato ogni possibilità per arrivare a questo: un troncone immobile tra le braccia di una sconosciuta... Questi, probabilmente, i pensieri di Rimbaud un giorno che sua sorella Isabelle gli sostituiva la fasciatura alla gamba amputata: lui che dello smarrimento sensuale aveva fatto ragione di vita, non cerca ora che un’infermiera.
Estate 1891. La poesia, Verlaine, l’Africa, il denaro: tutto doveva apparire a Rimbaud irrimediabilmente lontano e perduto. Il 22 maggio, da Marsiglia, aveva annunciato alla madre l’amputazione della gamba per una cancrena. Toccò a Isabelle farsi carico del «feroce infermo di ritorno da paesi caldi», accogliendolo nella casa di Charleville. Che pensieri attraversarono la sua mente in quei mesi tra giugno e novembre, in cui Arthur visse l’estrema prova della sua esistenza? Tenta di raccontarceli Philippe Besson nel romanzo scritto in forma di diario I giorni fragili di Arthur Rimbaud (Guanda, pagg. 200, euro 14). È la prospettiva, qui, ad essere nuova: Isabelle non è l’ennesimo artificio narrativo per raccontare una biografia che è stata percorsa come poche altre, ma una persona che agisce sul corpo e sull’anima di un poeta, e ne accoglie i dolori come le pesanti confidenze sul passato. Le febbri, i momenti di disperazione come quelli di dolcezza, le nostalgie: nell’arco di una sola stagione Isabelle dovrà fare spazio dentro di sé a emozioni impensate, senza per questo cambiare nella sostanza. E su quanto sia rimasta se stessa, una vieille fille dell’800, lo testimonia il fatto che ella espunse dalla biografia del fratello, scritta anni più tardi, tutti i fatti più sconvenienti. Anche Besson non si illude che a contatto con Arthur la borghesia cambi rotta. Descrive soltanto un breve incontro al di là del bene e del male.
Fin da bambino, Rimbaud non fece altro che camminare: fu questo il vero leitmotiv della sua vita. «Mentre l’osservo - annota Isabelle - stravolto dal dolore, che s’aggrappa al moncherino gonfio, penso di nuovo che è stato colpito proprio là dove risiedevano la sua forza e la sua ragion d’essere: alla gamba che comanda la marcia». Si risolve, allora, ad accompagnare il fratello su una carretta per quei campi che percorse da ragazzo e poi, mentre la cancrena lo divora, ascoltare ancora dalle sue labbra di amori colpevoli, vagabondaggi interminabili, attimi di furore. Ma è a Marsiglia che Arthur vuole tornare, accompagnato da lei. Glielo chiede in un sussurro. I due attraversano la Francia su quello che sembra un convoglio funebre, e di fatto lo è. L’Hôpital de la Conception diventa presto per Arthur luogo di delirio: «Chiude la sua vita in un sogno continuo», scriverà la sorella, che assiste anche a quell’estrema unzione tanto dibattuta dagli studiosi.


Un libro più sperimentale ci avrebbe privati del dramma umano dei due protagonisti, più «romantico» avrebbe reso evanescente Isabelle per dare spazio solo al «maledetto» Rimbaud. Il romanzo di Besson invece ci restituisce la figura intera di una coppia che in fondo non si è mai del tutto separata, non potendo l’uno esistere, e morire, senza l’altra.

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