Il filosofo che demolì i «talk show»

Quella dell’opinionista è la professione più comoda. Non si deve far altro che sedersi da qualche parte in uno studio televisivo, ascoltare, con malcelato dispetto, le parole di un altro cui è affidato il compito di aprire le danze retoriche e subito (preferibilmente dandogli, più o meno elegantemente, del pirla) contrapporgli la propria visione delle cose. Gli altri convitati risponderanno pan per focaccia, non di rado magnificando la zuppa nei confronti del suddetto pan, però bagnato. E lo spettacolo avrà inizio. Accade, dentro e fuori i labili confini temporali della par condicio, con i rituali delle tribunette politiche improvvisate ovunque nei luna park dei palinsesti. Accade, almeno 300 giorni l’anno, prima, durante e dopo le partite di calcio, erede contemporaneo e sguaiato delle greche panatenee. Accade a margine dei talent show, con Maria De Filippi o Morgan nel ruolo di simposiarchi maestri nel sobillare Amici e soprattutto nemici infoiati all’idea di esibire veri o presunti fattori X...
È la retorica, che avrà anche perso una «t», rispetto all’antica «arte del dire», ma in compenso ha guadagnato audience. A essa, un giovane filosofo morto cent’anni fa (per la precisione il 17 ottobre) Carlo Michelstaedter, contrapponeva proprio ciò cui essa anelava: la persuasione dell’interlocutore. La persuasione e la rettorica è il titolo della tesi di laurea dell’intrepido e tormentato goriziano. Il quale, partito con l’intenzione di esaminare i due concetti in Platone e Aristotele, finì per costruire un proprio sistema di pensiero incentrato sulla negazione della seconda e sulla ricerca della prima. La rettorica, dice Michelstaedter, è un peso: e se ci aggrappiamo a essa, divenendone schiavi, lei ci trascina verso il basso, in un concerto dissonante di chiacchiere, come direbbe un filosofo più terra terra, ad minchiam. Esercizio di pedissequo assemblearismo, la rettorica non distingue il grano dal loglio. Anzi, si adopera per mescolarli, cambia le carte in tavola, a tutto vantaggio della «comunella dei malvagi», cioè dei moderni sofisti un tanto al chilo, buoni per tutte le stagioni. Invece la persuasione ha questo di bello e di buono: è del singolo. La vera persuasione non è un omaggio di cui usufruire, bensì l’intima e personalissima maturazione di un seme che è individuale o non è.
Dice bene Giorgio Brianese nel saggio introduttivo alla riedizione di Dialogo della salute e altri scritti sul senso dell’esistenza (Mimesis, pagg. 222, euro 16), sorta di sondaggi preparatori alla tesi mai discussa dall’autore, suicidatosi a 23 anni: il pensiero di Michelstaedter è «una traduzione etico-volontaristica dell’impianto ontologico (e gnoseologico)» di Parmenide. Una volontà filtrata attraverso le lezioni di Leopardi e di Schopenhauer, con il contributo esterno di Nietzsche, alla ricerca di un punto saldo che sia, insieme, partenza e approdo. In ciò consiste il percorso del goriziano, la sua risposta agli opinion leaders di tutti i tempi. Una risposta che si morde la coda, ovvio, perché: 1) la persuasione è assenza di volontà dispersive (oggi diremmo di bisogni indotti); 2) ma d’altra parte occorre un supremo sforzo di volontà per negare queste volontà da poco... Insomma, ci vuole energheia, cioè «energia», «attività» per giungere all’arghia, cioè all’«essere persuaso».
Notato di passaggio che il grande amore di Michelstaedter fu un’amica della sorella Paula che si chiamava, guardacaso, Argia, e che il peso della rettorica viene da lui descritto in uno stile e secondo modalità simili alla «balistica discenditiva» di un altro autore il quale visse forse con orgoglio, sicuramente con dignità il proprio isolamento, il Giorgio Manganelli di Hilarotragoedia, possiamo ora riaccendere la tv e assistere alla commedia dei falsi equivoci. Forse oggi non saprebbe sottrarvisi neppure uno come Carlo Michelstaedter. Le sue prime e probabilmente ultime parole potrebbero essere queste: «Ogni nuova filosofia è come una rivoluzione che depone un ingiusto potere in nome della giustizia, per finir coll’insediarne un altro non meno ingiusto. Perché ogni potere in ciò che è messo come potere è “fattizio”, e perciò impotente e ingiusto. Ogni valore messo come valore assoluto è un arbitrio, e chiunque a quel valore s’affida e lo incarica di ciò che pesa a lui resta invalido sempre. Ma ognuno deve far da sé la rivoluzione, deve ricrearsi da sé se vuol giungere alla vita.

L’unica cosa che vale è “il valore individuale”. Questo vale per tutto ciò che vive, questo è il sogno d’ogni coscienza, questo deve ognuno aver il coraggio di far diventar “realtà”».
Ma il reality show individuale non è un format per tutti.

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