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LA FINE DI UN’IPOCRISIA

LA FINE DI UN’IPOCRISIA

Con Hamas che contro tutte le previsioni ha vinto le prime, democratiche elezioni palestinesi si è creata in Palestina una paradossale situazione: l'organizzazione islamica terrorista trionfa, esulta ma riflette; la dimissionaria Autorità palestinese piange e trema; gli israeliani - dai servizi di sicurezza ai coloni - nascondono il loro compiacimento.
Hamas ha vinto perché ha lottato contro Israele senza mai venir meno al rifiuto di trattare nel quadro degli accordi di Oslo; perché dispone di una rete di assistenza scolastica, religiosa e sociale che si è guadagnata la fiducia delle masse; perché non avendo fatto parte dell'Olp non ne condivide la scandalosa corruzione. Hamas esulta ma riflette come affrontare la sfida di governare senza averne l'esperienza, osservato dal mondo intero per la maniera «islamica» con cui disporrà del potere; Fatah piange per la sconfitta e trema perché il ribaltone rappresenta la seconda morte di Arafat, la rotta di quell'Olp che invece di liberare il popolo palestinese lo ha diviso, corrotto, truffato sfruttando la simpatia internazionale per la Palestina e l'antipatia o l'odio contro gli ebrei e Israele per impinguare le tasche della più vittimistica dirigenza mafiosa del mondo arabo. Il governo israeliano tira un sospiro di sollievo. Hamas è stato l'alleato ideologico del movimento del grande Israele opponendosi, come i coloni, ai negoziati di Oslo voluti dalla sinistra. Ha lottato assieme ai coloni contro la costruzione del muro di difesa: l’uno non volendo un’efficace difesa antiterrorismo, gli altri non volendo stabilire frontiere al «grande Israele». La vittoria di Hamas lo toglie dall'imbarazzo di dover continuare ad onorare a parole la «road map» e cercare di sabotarla nei fatti; il ribaltone distrugge il «paravento» di impotenza e falsità rappresentato dall'Autorità palestinese, sostenuto dall'America e dall'Europa dietro il quale si celava il terrorismo cinico, riottoso e antisemita di Al Fatah. Infine il successo elettorale di Hamas distrugge le illusioni della sinistra israeliana di poter negoziare una pace con notabili paracadutati dagli accordi di Oslo, in una Palestina passata dalla fierezza locale conquistata nella prima Intifada al malgoverno di Arafat e dei suoi compari.
Soddisfatti sono i militari e i servizi segreti. I primi perché sperano finalmente che con il governo libero dalle pastoie americane nei confronti dell'Autorità palestinese possano essere autorizzati a rispondere a una eventuale ripresa del terrorismo colpendo non solo i suoi dirigenti ma le strutture civili sui cui Hamas ha costituito la propria popolarità. I secondi perché conoscendo la corruzione dei dirigenti della Autonomia palestinese, la loro avidità, e la loro rabbia verso Hamas, sperano di poter allargare le proprie reti di informazioni.
Ci sono poi due fatti che Israele segue con molta attenzione: lo sviluppo di uno scontro ideologico fra Hamas, organizzazione sunnita legata ai Fratelli musulmani d'Egitto, e Hezbollah, organizzazione sciita legata all'Iran; la possibilità che la lotta per il recupero e la spartizione delle spoglie e dei tesori accumulati e trafugati all'estero dai capoccia di Al Fatah faccia scoppiare la lotta fra i vari «signori della guerra». Infine non si deve sottovalutare un'altra ricaduta di queste elezioni. A vincerle, non è stato solo Hamas. C'è stata la gente che chiede un cambiamento capace di non mettere a repentaglio il futuro legandolo alla lotta contro un nemico che non può essere piegato ma con cui deve collaborare se vuole uscire dal suo presente stato di miseria.

Hamas sa di dover cogliere questa volontà popolare con scelte altrettanto difficili ma possibili di quelle fatte da Sharon.

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