Fini adesso parla male dei partiti "Le Fondazioni sono più democratiche"

Per il cofondatore del Pdl accoglienza fredda alla kermesse di Milano. "Voltata pagina, basta luoghi di propaganda senza dibattito interno". Sul palco si fa fotografare con una ragazza che indossa il velo. Tremonti lo critica sull'integrazione, anche gli ex colonnelli prendsono le distanze 

Fini adesso parla male dei partiti 
"Le Fondazioni sono più democratiche"

Milano Alla fine lui è sgommato via dal retro del Palalido seminando i giornalisti mentre il popolo della libertà, quello con la «p» minuscola, non il partito ma la gente che vota centrodestra, imboccava l’uscita principale brontolando. «Chissà dove sarebbe senza Berlusconi». «Non ha mai fatto niente nella vita, adesso ci fa la morale». «Ma cosa vuole questo qui?». Il problema è tutto in quelle due parole, «questo qui». Perché il popolo della libertà sembra imbarazzato perfino a chiamare Gianfranco Fini per nome. Non lo conoscono più.
L’ex delfino di Almirante ha abiurato la memoria di Mussolini. L’ex leader del partito «Dio patria e famiglia» predica all’opposto della Chiesa sulla bioetica. L’ex ministro che con Bossi ha dato il nome alla severa legge sull’immigrazione estende la cittadinanza «a tutti quelli che amano l’Italia» e si fa fotografare con una ragazza egiziana velata. Il cofondatore (la primavera scorsa) del Pdl bastona i partiti, «cartelli elettorali, luoghi di propaganda senza democrazia interna». Il politico sdoganato da Berlusconi non spende apprezzamenti per il governo Berlusconi: «Giudicheranno gli italiani». E tuttavia si prepara a manifestare il suo pensiero in un libro (svelato ieri dal Giornale) con la prefazione - si vocifera - di Paolo Mieli, che la Rizzoli prevede diventerà un bestseller, in cui Fini racconterà ai «ragazzi dell’89», la generazione successiva alla caduta del Muro di Berlino, qual è «il futuro della libertà».
Il popolo del centrodestra si riversa al Palalido, riempie (per una volta) tutti i posti a sedere per ascoltare il numero 2 del partito, e ti ritrova un signore freddo, che arriva un’ora prima per chiacchierare con La Russa a bordo piscina, assaggia le specialità degli stand gastronomici senza entusiasmo, stringe poche mani mentre sale sul palco e se ne fugge dal retro. Anche lui sembra a disagio tra la sua gente.
Ieri mattina era a Torino, dibattito con Massimo D’Alema, ostentatamente «bipartisan» anche nel giorno dell’intervento alla prima Festa della Libertà. Lì ha lanciato l’affondo sui partiti «cartelli elettorali». Ha definito il confronto parlamentare «una sorta di ordalia» (ma al Palalido il pd Enrico Letta gli ha fatto osservare che questa settimana la Camera ha lavorato appena otto ore). E ha detto di preferire le fondazioni, una specie di «riserva della repubblica»: «Una volta c’erano i partiti, ora abbiamo voltato pagina e le fondazioni possono sopperire ad alcune lacune».
Nel pomeriggio il presidente della Camera si è materializzato a Milano. E al Palalido, senza mai citare apertamente nessuno degli obiettivi, si è divertito a giocare a freccette con la sua maggioranza. Ha rimproverato il governo per il ritardo nel varare le «urgentissime riforme»: «O si fanno congiuntamente dal sistema Italia o si rischia di non vincere la crisi». Ha infilzato la Lega e la sua proposta di salari differenziati tra Nord e Sud: «Altro che gabbie salariali, bisogna legare gli stipendi alla produttività».
Il piatto forte è stata la questione della cittadinanza, rilanciata con forza e anche con la consapevolezza di andare contromano. «L’Italia è degli italiani ma anche di tutti coloro che la amano». Malumore in platea. «La cittadinanza non può essere solo una questione burocratica». Borbottii. «Amare l’Italia significa dimostrare di conoscerne la lingua, la storia, la geografia, giurare fedeltà alla sua Costituzione e, se necessario, servirla con le armi. Bisogna superare veri e propri esami anche 5 o 7 anni dopo aver messo piede sul nostro suolo. Sono un eretico se concedo la cittadinanza a studenti stranieri minorenni? Sono diventato di sinistra? Ho perso la testa?». Sì, urla una signora dal pubblico. Fini insiste: «Qui non ci sono depositari della verità. Dibattere fa soltanto bene e continuerò a porre questioni finché non sentirò argomenti validi. Dire che non c’è nel programma è un argomento risibile».
Fini respinge nervosamente «le scomuniche preventive degli organi di giornale». Quando perfino Letta lo contesta, replica: «Sono abituato a sentirmi dire che sono diventato di sinistra, ma forse è la sinistra che si è spostata a destra». E si irrigidisce quando Giulio Tremonti smonta i suoi ragionamenti, pur definendoli «generosi e coraggiosi»: «L’Olanda sta perdendo la sua identità nazionale. In molte città del Nord Europa la maggioranza non è più quella storica. Chiedete a tedeschi e inglesi i problemi posti dalla terza generazione di immigrati. Discutere pubblicamente di questi scenari è giusto ma al momento opportuno, e una cosa fatta nel tempo sbagliato diventa a sua volta sbagliata». Il popolo della libertà esulta in piedi.
In serata anche i luogotenenti (ex?) di Fini mettono un minimo di distanza.

Matteoli e Gasparri dicono che le fondazioni non possono prendere il posto dei partiti, mentre La Russa difende il capo ma critica la proposta di legge di Fabio Granata, finiano di stretta osservanza: «Roba da peones». Si dissociano anche Cicchitto e Quagliariello. Fini è isolato. Ma se voleva semplicemente avviare un dibattito, quell’obiettivo è raggiunto.

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