Fini lo sprovveduto... È giallo su quell'assegno dato all’amico furbetto

Nel ’92 prestò 150 milioni di lire a un costruttore, poi lo accusò di averlo raggirato. Ma l’imprenditore gliene ha chiesti 500

Fini lo sprovveduto... 
È giallo su quell'assegno  
dato all’amico furbetto

Gian Marco Chiocci - Patricia Tagliaferri

Roma Aveva 40 anni Gianfranco Fini quando, nel 1992, allora giovane segretario dell’Msi, prestò 150 milioni delle vecchie lire, circa 200mila euro di oggi, ad un amico in difficoltà economiche, Antonio Silvestroni, imprenditore molto vicino al partito. Un gesto nobile, che però ha creato non pochi grattacapi all’attuale presidente della Camera. E già, perché quei soldi sono divenuti oggetto di una contesa giudiziaria tornata d’attualità per i suoi risvolti inediti, degni di essere raccontati anche a distanza di tanto tempo. Con un generoso quanto sprovveduto Fini che tira fuori di tasca propria una quantità di denaro di cui non proprio tutti, a quell’epoca, potevano disporre, e il presunto truffatore che invece ritiene di essere stato lui stesso vittima di un raggiro. Il primo che rivuole indietro 150 milioni, il secondo che ne reclama invece 500.

È proprio Fini a raccontare come sono andate le cose in una querela presentata alla Procura di Roma il 27 febbraio del 1993. Non riuscendo ad avere indietro il denaro prestato, infatti, l’attuale leader di Fli decide di chiedere ai magistrati di procedere contro l’imprenditore per truffa aggravata. Fini racconta di «conoscere da tempo Antonio Silvestroni, che si dichiarava imprenditore provveduto e cospicuo». Quanto basta, insomma, per firmare il 19 giugno del 1992 un assegno dell’importo richiesto. «Il suo tenore di vita - si legge nella denuncia - le relazioni intrattenute e, soprattutto, gli argomenti da lui trattati circa i suoi molteplici affari ne rivelavano oltre che la consistenza economica un’adamantina dirittura morale».

Un beau geste che gli si ritorcerà contro poiché i 150 milioni non li rivedrà più (anche se Silvestroni, nell’intervista accanto, sostiene il contrario). Non solo. L’ipoteca sull’immobile che Silvestroni aveva offerto in garanzia, a detta di Fini, si rivelò quantomai inefficace: l’appartamento di via Romeo Rodriguez Pereira, infatti, risultò venduto nel luglio 1993. «Silvestroni - spiega lo stesso Fini - dopo aver ricevuto il prestito, aveva preso tempo, aveva venduto l’immobile per sottrarre alle mie successive pretese ogni garanzia ed aveva consentito l’iscrizione dell’ipoteca soltanto dopo la cessione dell’immobile ad un terzo, certamente approfittando delle lungaggini burocratiche relative alla trascrizione del contratto di compravendita che avrebbe vanificato le visure disposte dal notaio rogante».

Prima di fare l’amara scoperta Fini veniva continuamente rassicurato dall’amico imprenditore, che gli continuava a chiedere di procastinare i pagamenti. «Mi sottolineava come ormai io dovessi ritenermi cautelato ampiamente dall’ipoteca che garantiva, innanzitutto, la sua correttezza e, quindi, la restituzione di quanto mi doveva». Peccato che l’appartamento in questione non fosse più nella disponibilità di Silvestroni. Così nel gennaio del 1993 Fini torna all’attacco, avverte l’imprenditore che non avrebbe atteso oltre e che avrebbe esercitato i suoi diritti. Per tenerlo buono, allora, l’amico gli dà in pagamento titoli a firma della società Diplomat Tour «assicurandolo circa la solidità del traente». Ma anche in questo caso Fini rimane a bocca aperta quando scopre che i titoli erano andati protestati.

Una doppia beffa, a suo dire. Perché l’allora segretario missino aveva tenuto a battesimo il figlio di Silvestroni, andava in vacanza con lui in Sardegna, il partito tutto si rivolgeva al costruttore per necessità di ogni tipo. Poi, certo, con la questione del prestito i rapporti si sono incrinati. Il procedimento si è concluso nel febbraio del 2000 con una sentenza di prescrizione. Ma solo oggi si è appreso che i due si confrontavano non solo in sede penale ma anche, invano, davanti al giudice civile. In questo caso è Silvestroni a battere cassa. A chiedere il saldo delle fatture dei lavori fatti per il partito, Msi prima, An poi, pari a cinquecento milioni di lire.

E quel prestito del segretario Fini, in realtà, per Silvestroni sarebbe stato solo un «anticipo» su quanto il partito di Fini gli doveva. Due amici. Due versioni contrastanti. Da allora le loro strade non si sono più incrociate. Il reato è prescritto, il reciproco rancore no.

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