Cultura e Spettacoli

«Flauto Magico» e «Turandot», l'addio massonico dei «fratelli» Mozart e Puccini

La Scala mette in cartellone uno dopo l'altro i titoli che rappresentando il congedo dei due Maestri. E non solo in senso artistico: entrambi avevano raggiunto il massimo grado della «Muratoria». Opere piene di riferimenti come l'Oriente, sinonimo di Massoneria, il numero tre, le prove da superare, i misteri da svelare

Curiosa scelta della Scala che accosta nel cartellone «Flauto Magico», in scena fino al 3 aprile, e «Turandot», dal 10 aprile fino al 13 maggio: le ultime opere di Mozart e Puccini. E se il genio di Salisburgo fece in tempo a vedere rappresentato il suo lavoro, morì un paio di mesi dopo, la composizione del maestro toscano andò in scena due anni dopo la sua scomparsa. Ma se tutti devono scrivere la loro «ultima opera», in questo caso le analogie vanno ben oltre. Entrambi i musicisti infatti hanno scelto una fiaba senza tempo, con regine e principesse, inganni e prove da superare, percorsi tortuosi e improvvise rivelazioni. C'è inoltre la presenza dell'estremo oriente, Pamino originariamente è cinese, giavanese o giapponese, mentre sicuramente a Pechino si svolge la vicenda della crudele Turandot. Cioè l'Oriente che per definizione indica la massoneria nel suo insieme. Infine se il «Flauto» mozartiano è scopertamente un'opera «iniziatica», anche il massone Giacomo non rinunciò a inserire qua e là simbologie muratorie, quasi per lasciare una «firma».
Mozart venne iniziato come apprendista il 14 dicembre 1784, nella Loggia «La Beneficenza» di Vienna, per diventare poi «compagno» nel marzo del 1785 e «maestro» in aprile. La sua appartenenza non fu mera adesione formale, ma trasse fondamento in profondi convincimenti esoterici e spirituali, che egli tradusse in musica. Fino a concludere la sua produzione con il «Flauto», messo in scena il 30 settembre 1791 al «Theater auf der Wieden» di Vienna. Appena il tempo di vederne l'immediato successo e il 5 gennaio, suo autore passò all'«Oriente Eterno».
L'opera racconta in «fiaba» il percorso di un «libero muratore», dagli inganni delle tenebre, la Regina della Notte, fino alle verità della luce attraverso le prove del silenzio, del fuoco e dell'acqua. Al termine per il protagonista Tamino c'è anche tempo per trovare l'amore di Pamina, perché solo nell'incontro di un uomo e di una donna si raggiunge la perfezione. Per questo la maggior parte delle critica è convinta che Mozart abbia contribuito attivamente alla stesura del libretto anche se poi ufficialmente risulta scritto dall'amico, impresario teatrale, nonché primo Papageno e anche lui «fratello muratore» Emanuel Schikaneder. Nel dubbio, il racconto è cosparso di «tre», numero massonico per eccellenza: tre sono le dame velate che salvano Pamino dal serpente, due soprani e un contralto, tre i genietti, voci bianche, che poi lo accompagneranno nella sua impresa. Impossibili da distinguere gli uni dagli altri, sono una sorta di personaggio unico che dialoga con se stesso.
«Popolo di Pechino, la legge è questa» tuona il mandarino all'inizio di Turandot, quindi nessun dubbio sul luogo dove si sviluppa l'azione. Il «Grande Oriente» dunque, prima di altre simbologie massoniche, poco usate prima dal compositore, che strizzano l'occhio qua e là dal libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni. Anche qui troviamo per esempio «prove da superare», gli enigmi di Turandot, ma dove Puccini lascia la sua indubitabile «firma» massonica è nella scelta di Ping, Pong e Pang. Nella commedia scritta nel 1762 dal veneziano Gaspare Gozzi, erano infatti presenti alcune maschere della commedia dell'arte: Pantalone, segretario d'Altoum (padre di Turandot), Tartaglia, gran cancelliere, Brighella, maestro dei paggi e Truffaldino, capo degli eunuchi del serraglio. Puccini li riduce a tre. Inoltre nel definirli vocalmente Ping (Gran Cancelliere), Pang (Gran Provveditore) e Pong (Gran Cuciniere), il Maestro sceglie due tenori e un baritono. Cioé la stesso equilibrio musicale proposto da Mozart per le sue tre dame velate. Ma Puccini, a differenza del «fratello» austriaco, non riuscirà a portare a termine la sua opera: morirà infatti a Bruxelles il 29 novembre 1924 stroncato da un infarto sopraggiunto dopo un disperato intervento chirurgico per estirpare un cancro alla gola, probabilmente causato dalle innumerevoli sigarette.
Puccini da un anno era fermo sul suicidio di Liù non riuscendo a concludere l'opera. Impresa non facile infatti perché la morte della giovane schiava, l'unica a sapere il nome del misterioso principe, è causata dalla caparbietà di Calaf, a non volerlo rivelare, e di Turandot, a volerlo conoscere. Entrambi quindi avrebbero trovato l'amore proprio grazie al suo sacrificio. L'opera venne presentata alla Scala il 25 aprile di due anni dopo. Sul podio l'amico Arturo Toscanini che due battute dopo il verso «Liù, poesia!», appoggiò la bacchetta sul leggio e si voltò verso il pubblico: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». La sera seguente, l'opera fu rappresentata interamente, sempre sotto la direzione di Toscanini, con il finale di Franco Alfano. Il compositore napoletano era stato chiamato a scrivere l'ultima scena utilizzando gli appunti del Maestro, lavoro difficile e tormentata dai numerosi interventi dello stesso Toscanini.

Anche Alfano era massone: iscritto a una Loggia di Napoli all'obbedienza del Grande Oriente d'Italia, raggiunse il 33° grado del Rito Scozzese Antico e Accettato.

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