Follini al momento della verità

Arturo Gismondi

Non trovo in sé scandaloso, l'amico Guzzanti capirà, che Marco Follini sia andato alla Festa dell'Udeur che Mastella organizza ogni anno a Telese. In un Paese nel quale fior di democratici, o di manager, di uomini dello Stato e di magistrati fanno carte false per farsi invitare alle Feste dell'Unità, dove si pesano le parole che si dicono, e si tien conto di quelle che si tacciono, non è così disdicevole frequentare la platea di Mastella. Quelli che ci sono stati (chi scrive segue quando è il caso su radio radicale) hanno un buon ricordo del pubblico, paesano e cordiale e in più grato a chiunque si sobbarchi un viaggio tanto lungo per dire la sua in una materia, la politica, che laggiù comincia a essere di casa.
Spiace piuttosto che Follini si sia prestato a fare una figura mediocre: un mezzo profugo politico, come si immagina sia chiunque faccia parte di un'alleanza della quale discute la compagnia, aborre le regole, rifiuta il leader. L'occasione era un dibattito con Rutelli, uno di casa, contento di esserlo, e che mentendo smaccatamente manifestava il suo entusiasmo per la possibilità di votare due volte, il giorno del voto e in più alle primarie, per Romano Prodi.
I risultati del confronto, che definiremmo come si usa oggi asimmetrico, non poteva essere diverso. Tutti e due i protagonisti, a scanso di sospetti di inciuci e doppi giochi, giuravano fedeltà alla propria parte: Rutelli si diceva deciso e sicuro di vincere, Follini appariva meno sincero dovendo premettere come condizione al suo impegno un «grande, grande, grande cambiamento» la defenestrazione di Berlusconi, nientemeno. Lo stesso Follini, richiesto come sostituirlo, doveva ammettere di non saperlo bene, o di non poterlo dire «a scanso di altre difficoltà» dopo quelle incontrate per dire che bisognava cambiare il candidato voluto peraltro dal resto della coalizione.
Sia Rutelli, sia i giornalisti che intervistavano i due personaggi sono stati comprensivi, non hanno chiesto a Follini cosa si proponga di fare dal momento che né Berlusconi vuole farsi da parte, né vogliono che lo faccia gli altri alleati della Casa delle libertà, Forza Italia, Fini, e Bossi. Era stato meno caritatevole Paolo Franchi, che qualche giorno prima sul Corriere della Sera aveva chiesto a Follini se avesse valutato appieno la sua posizione e se si fosse posto il problema, nell'impossibilità di cambiare il candidato premier, delle eventuali alternative. A questo punto, incalzava Franchi, resta solo di schierare l'Udc fuori del centrodestra, decretando così forse la sconfitta della coalizione di Berlusconi, certo la propria, e quella di coloro che accetteranno di seguirlo.
Eppure, questa è l'alternativa dinanzi alla quale si trovano Follini e l'Udc, ma anche Pierferdinando Casini, ministri, sottosegretari e deputati e senatori. Questa, soprattutto, è l'alternativa nella quale si trova un partito che bene o male dieci anni fa quando la Dc si sciolse come neve al sole, e ritenne persino di dover cambiare nome, quasi che quello scelto da De Gasperi fosse da gettare nella spazzatura della storia, seppe dire di no. E lo disse, quel no, sotto l'imperversare degli avvisi di garanzia, e il pollice verso di Rosi Bindi per i dannati di Di Pietro e tutti coloro i quali, piuttosto che accomodarsi alla corte dei vincitori, preferirono un atto di orgoglio, raccogliendosi attorno a Casini, Buttiglione, D'Onofrio, Giovanardi, e lo stesso Follini abbracciando infine l'invito alla resistenza che veniva da Silvio Berlusconi.
Nessuno può pensare che questa, e cioè la dissoluzione in una avventura che al momento appare priva di senso e di prospettiva politica, sia la fine che si prepara per i cattolici della Casa della libertà. Chi scrive, però, ha frequentato da osservatore partecipe le vicende socialiste, sa che le scissioni, e le secessioni, ancorché siano in pochi a volerle, hanno un loro meccanismo fatale, che ci vuole poco a precipitarle, molto a pentirsene.
Si spera in un finale migliore, ma qualcosa bisogna farla. In una lettera al Corsera Follini ha provato ieri a spiegare la sua linea, e sfiora l'infortunio allorché, elencando i meriti del suo partito, cita le leggi approvate in Parlamento col voto dell'Udc. Ma proprio quelle leggi che Follini elenca a suo merito stanno lì a dimostrare che questo governo qualcosa di buono l'ha fatto, che l'Udc nel quadro di questa alleanza ha potuto bene operare. E perché definire la coalizione nella quale l'Udc ha potuto far valere le sue buone ragioni una monarchia, mancando di rispetto a tutti coloro che vi hanno partecipato, trattati alla stregua di sudditi? Ed è un'accusa che già oggi viene rivolta a Follini, è quel che fa D'Alema su Repubblica nella stessa giornata di ieri.
a.

gismondi@tin.it

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