Fonda due giornali al mese e regala un milione di copie tutte le mattine

L’unico mistero di Nichi Grauso, editore di giornali, trasvolatore dannunziano, violatore di embarghi e cortine di ferro, mediatore in sequestri di persona barbaricini, insomma uomo di imprese all’apparenza disperate, è questo: ogni mattina Nichi si alza dal letto per sfidare Grauso. Va così da 31 dei 57 anni di vita dell’uno e dell’altro, precisamente dal 19 giugno 1975, quando a Cagliari fondò Radiolina, la prima emittente libera italiana, seguita a settembre da Videolina, la prima Tv commerciale, e da Video on line, il primo provider di Internet, poi venduto a Telecom, che l’ha trasformato in Tin.it. Improvvisandosi di volta in volta antennista, operatore, regista, conduttore radiofonico, informatico, imprenditore, politico.
Una mattina dell’88, per dire, Nichi si alzò dal letto e comandò a Grauso d’improvvisarsi scafista. «Ero andato in Albania a vedere che cosa stava accadendo. Al ritorno decisi di portare con me una dozzina di clandestini. Li assunsi per tre mesi all’Unione Sarda, li aiutai a ottenere il permesso di soggiorno. Hanno fatto carriera: una è diventata responsabile commerciale di Calzedonia».
Si trattiene. Ha già detto troppo. «Ma perché devo darle questa intervista?». Lo ripeterà come un mantra altre otto volte nel corso del colloquio. Misura la stanza in lungo e in largo a piccoli passi, mai seduto, gli occhi sul computer portatile e le mani sulla tastierina estesa del Nokia communicator. Fuma una Marlboro via l’altra. È scosso da una tosse stizzosa e da risucchi nasali che conferiscono un che di febbrile alle sue visioni. «Dicono che sono cocainomane, invece è solo una brutta rinite cronica». Tre flaconi di gocce e tre blister di farmaci, allineati sul comò, confermano.
L’ultima impresa che Nichi ha ordinato a Grauso non era mai riuscita a nessun altro editore: inventarsi dalla sera alla mattina il più diffuso quotidiano d’Italia e distribuirlo gratis. Detto fatto. Nichi Grauso lo stampa sette giorni su sette in 730.000 copie, che presto diventeranno un milione. Si chiama E Polis e ha 64 pagine a colori. In realtà si tratta di testate locali free press uguali nella grafica ma diverse fra loro nei contenuti, consultabili anche su Internet. Ha cominciato ad aprirle a marzo ed è andato avanti come un rullo compressore alla media di due nuovi giornali al mese. In questo momento, oltre a E Polis Roma ed E Polis Milano, ne pubblica due nella sua isola, Il Sardegna blu (Cagliari e Oristano) e Il Sardegna rosso (Sassari e Nuoro), e un’altra decina «sul continente»: Il Venezia, Il Mestre, Il Treviso, Il Padova, Il Vicenza, Il Verona, Il Brescia, Il Bergamo, Il Firenze. Entro 24 mesi saranno 28 giornali dalle Alpi alla Sicilia, per un totale di un milione e mezzo di copie regalate ogni giorno che Dio manda in Terra, e a quel punto c’è da scommettere che la E Polis Spa sarà quotata in Borsa.
L’aspetto più curioso della faccenda è che gli addetti ai lavori attribuiscono la temeraria cocciutaggine con cui Grauso s’impegna nel progetto alle sue origini isolane. Niente di più sbagliato: nelle vene non ha una goccia di sangue sardo. Per parte di madre, la bisnonna era un’india di Tucumán che sposò un piemontese andato a dirigere uno zuccherificio in Argentina; per parte di padre, il nonno era un napoletano che con due velieri da 20 metri portava la pasta di Gragnano a Cagliari. Qui Nichi nacque e frequentò il liceo classico, cambiando quattro istituti a causa della svogliatezza. Si riscattò conseguendo una laurea in giurisprudenza.
Quanti giornali ha aperto finora?
«Dipende da quando esce l’intervista».
Domenica prossima.
«Se aspetta una domenica, diventano 15: il 6 dicembre apriamo Il Bologna e Il Napoli».
A che serve l’articolo determinativo al maschile?
«Ad assolutizzare il nome e a renderlo minimamente tutelabile. Mi meraviglia che in 100 anni gli editori locali mi abbiano lasciato in ogni città la testata più bella».
Come le è venuta l’idea?
«Una botta di culo: mi hanno portato via l’Unione Sarda per le note vicende legate al sequestro Melis. Qualcosa dovevo pur fare, e l’editoria è l’unica cosa che so fare. Ho preso le mosse da una considerazione banale: sono cambiati gli stili di vita, l’urbanistica, la comunicazione, la mobilità, sono cambiati gli uomini stessi. Gli unici a essere rimasti fermi al 1948, a parte qualche rotativa nuova, sono i giornali. Ho pensato a un prodotto contemporaneo, agile anche nella forma espositiva. Non si possono fare 64 pagine di articoli come i suoi».
Sono d’accordo.
«Però anche noi la domenica mettiamo un pezzo di grande lettura disteso su due pagine».
Perché è partito dal Nord Est?
«È un’area ricca, dove abbondano i giornali di città ben radicati. Un concorrente forte ma stantio ci rende la vita facile: la gente apprezza subito la voce alternativa».
Quanto le costa la copia di E Polis che regala?
«Venticinque centesimi di euro. Ora mi chieda quanto costa la copia del concorrente».
Sentiamo.
«In media 1,40 euro. Ed è venduta a un euro. Non è finita: di quell’euro, il 25% se lo pigliano la distribuzione e le edicole, il 25% se ne va in trasporti e il 15% in rese».
Mentre E Polis?
«Non deve ritirare le rese, anche perché alle 11 del mattino è già esaurito. L’incidenza dei costi di trasporto è infinitesimale: 2,5% a copia. All’Unione Sarda avevo otto persone per distribuire il giornale solo sull’isola, qui ne ho la metà per tutta l’Italia».
Non parliamo dei giornalisti.
«Quanti saranno oggi all’Unione? Novanta? E Polis ne ha 120 per 15 testate, dirette da un unico direttore che vaga smaterializzato in tutte le città. Si collegano con i computer portatili dalle sedi periferiche, oppure da casa, dalla baita in montagna, non m’interessa da dove, scrivono i loro pezzi, impaginano, titolano. Fine. Che senso ha, nell’era del telelavoro, fargli perdere due ore al giorno nel traffico caotico delle città per averli imbufaliti in redazione?».
Poligrafici?
«Zero. A che servono? Come gli strilloni: inutili. I nostri punti free sono raggiungibili a piedi in 3-5 minuti: stazioni, università, ospedali, negozi, bar. A Milano sono ben 2.000. Lei di dov’è?».
Verona.
«Verona conta 150 edicole. Noi abbiamo 500 punti free. Oltre il triplo. I baristi fanno a gara per avere Il Verona. Naturale, gli fa vendere più caffè».
Veramente lei va anche nelle edicole a mezzo euro.
«Un servizio in più. Meno di 10.000 copie vendute in tutta Italia. Potrei rinunciarci da domani».
I gruppi Rcs-Corriere della Sera e L’Espresso-Repubblica la accusano di destabilizzare il mercato.
«Il vero obiettivo è questo. È la storia della mia vita».
La free press finirà con l’ammazzare i quotidiani locali e sottrarre copie a quelli nazionali?
«Sì».
Che cosa pensa della profezia dell’Economist, secondo cui l’ultimo quotidiano chiuderà nel 2043?
«L’ultimo degli altri. Noi siamo la Ryan air dell’editoria. Ci provi l’Alitalia a diventare la Ryan air, se ci riesce. La verità è che giornali come E Polis si sarebbero potuti e dovuti fare già vent’anni fa».
Allora perché non li ha fatti?
«Ero demonizzato. Ecco, vede? Lei mi trascina a parlare di cose che... Non m’intervisti, mi lasci in pace».
Ormai sono qua.
«Chi traccia scenari nuovi è odiato. Possiamo dire che negli ultimi 50 anni editori, giornalisti e poligrafici sono stati, nelle loro categorie di imprenditori, intellettuali e operai, dei privilegiati rispetto a tutti gli altri settori dell’economia italiana? Possiamo concluderne che questo li ha intorpiditi? Il treno del tempo avanza e noi restiamo seduti sul conosciuto, dimenticandoci che è caduto l’impero romano d’Occidente e anche quello d’Oriente. Ma un mondo dominato da accelerazioni fortissime non può dare a nessuno la certezza di non doversi rimettere in discussione ogni giorno».
Quanto ha investito in quest’avventura?
«Me lo chieda fra due anni, quando avrò visto i primi utili».
Pensa di farcela con la sola pubblicità?
«Canale 5 non è forse free?».
Da 1 a 10, quanto contano i giornalisti nella sua impresa?
«Il direttore conta 100. Si chiama Antonio Cipriani, ha 46 anni, ha lavorato all’Unità e all’Ora di Palermo».
Giornalisti, le ho chiesto.
«Inutile fare gli ipocriti: su 120 assunzioni, sette le abbiamo sbagliate. Sette bravi ragazzi, eh, non li vogliamo licenziare. Solo che non hanno ben capito dove si trovano. In compenso i restanti 113 si sono rivelati dei fuoriclasse».
Che altri direttori le piacciono?
«Telefoni al Tg1 e chieda a Gianni Riotta chi fu il primo a offrirgli di dirigere un giornale a 31 anni. Era l’85, avevo rilevato da pochi giorni l’Unione Sarda».
La accusano d’essere stato di sinistra, poi di destra, ora nuovamente di sinistra.
«Quest’intervista avrei preferito che me la proponesse Il Manifesto, invece me l’ha chiesta lei. Se penso a relazioni affettive, penso a Valentino Parlato».
Lo credo bene: nell’88 la davano sul punto di acquisire il quotidiano comunista.
«Ne parliamo ogni cinque anni con Valentino. Però il verbo acquisire, mi consenta... Piuttosto Il Manifesto mi assuma. M’accontento di poco. Ma il rapporto deve cambiare totalmente».
Fu il primo privato a entrare come socio in Rinascita, la rivista del Pci.
«Ci misi un miliardo e mezzo di lire. Me l’aveva chiesto l’amministratore dell’Unità, Armando Sarti».
In Polonia acquistò uno dei maggiori quotidiani, lo Zycie Warszawy, e un circuito di emittenti televisive.
«Tenuti sei-sette anni e ceduti».
Li comprò dal governo, c’era ancora il Muro di Berlino. Servivano buone entrature.
«Nacque tutto per caso, durante un weekend a Varsavia con Franco Maria Ricci, l’editore di riviste d’arte. Continuavano a ripetermi “privatizazia, privatizazia”. Alla fine m’avevano fatto una testa così e cedetti».
Gorbaciov veniva in vacanza con la moglie nella sua villa di Villasimius.
«Chiesi io di conoscerlo. Il primo incontro fu a Roma. Dopo tre minuti Raissa mi disse in francese: “Dura la vita, eh, signor Grauso”. Gorby è un santo. Che purezza! Che dolcezza! Che profondità! Come il suo braccio destro Vladimir Zagladin. È morto la settimana scorsa, non ne ha parlato nessuno».
Ho capito: è di sinistra. Definitivo.
«Destra, sinistra... Mi manca Giorgio Gaber! Mio padre Mario fu partigiano nella Stella rossa con lo scrittore Carlo Coccioli, che fino alla morte ha scritto sul Giornale da Città del Messico. Suo cugino, Michele Grauso, venne infoibato dai titini. E dunque? Quest’Italia non consente la non appartenenza. Sei interista o milanista? Sembra che la libertà non esista più. Se le dico che sono di sinistra, tutti pensano a Prodi e D’Alema. Un’equivalenza inaccettabile. Filosoficamente mi sento molto più a sinistra di loro. Le logiche di appartenenza rispondono o a interessi economici, e allora sono schifose, o a imbecillità».
Che cosa la spinse a intromettersi nelle trattative con i rapitori di Silvia Melis?
«Era un simbolo, non sapevo manco chi fosse. Volevo smascherare l’infame legge sul congelamento dei beni. Sequestrano una persona e per tre mesi nessuno si fa vivo, la famiglia cade nella disperazione. Poi avviene il contatto e comincia una folle giostra: i parenti a procurarsi i soldi, le Procure a bloccarglieli. Infine intervengono i servizi segreti che pagano sottobanco e simulano la fuga dell’ostaggio. Chieda a Cossiga. Vogliamo parlare di come fu liberato il piccolo Farouk Kassam? Ma guai dirlo agli italiani! Gli italiani vanno trattati da coglioni. Così i banditi spesso incassano tre riscatti da tre fonti diverse. Mica sono scemi, è gente che sa sincronizzare i tempi del rilascio».
Ma lei come faceva a conoscere i malviventi?
«Ogni criminale ha una mamma, una sorella e uno zio, ha avuto una maestra e un prete che l’hanno visto crescere. Nelle famiglie povere la regola era questa: il primogenito studia per diventare professore, avvocato o parroco, e l’ultimogenito fa il capraio per pagare le scuole al fratello. Avevo mille dipendenti, molti dei quali parenti strettissimi, e degnissimi, di banditi famosi. I rapimenti avvengono tra la Barbagia e l’Ogliastra, poche migliaia di abitanti, dove tutti sanno tutto. Chi lo nega è un bugiardo. Per riportare a casa un ostaggio, qualcuno che affondi le mani nella merda ci vuole».
Poi lei si offrì come garante per il pagamento del riscatto nel sequestro Soffiantini.
«Io raddoppio sempre».
Che cosa la indusse a volare a Tripoli con Vittorio Sgarbi, violando l’embargo dell’Onu, per liberare il tecnico Marcello Sarritzu, trattenuto dal governo libico?
«Narcisismo? Inquietudine? Altruismo? Senso di colpa nel sapere che, potendolo fare, non l’avevo fatto?».
Con Sgarbi e padre Jean-Marie Benjamin violò anche l’embargo aereo imposto all’Irak di Saddam e atterrò a Bagdad. A che scopo?
«Un milione e mezzo di iracheni erano stati uccisi da fame, bombardamenti, mancanza di medicine, e sui nostri giornali non valevano neppure una breve. Se avessi perso un fratello nell’attentato alle Torri gemelle, sarei morto di dolore. Ma non so se sarei riuscito a incazzarmi con i musulmani».
Questo padre Benjamin passa per amico dei fondamentalisti islamici.
«È una vittima dei pregiudizi antiarabi. Lo sa che per il volo sull’Irak io finii nella black list degli Stati Uniti? Mi controllavano l’American Express. I banchieri stranieri mi telefonavano allarmatissimi».
L’impressione è che le piaccia vivere pericolosamente.
«Che cos’è pericoloso? Atterrare a Bagdad? Ho volato per tre ore e mezzo fra il 33° e il 35° parallelo, nella cosiddetta no fly zone. Con un aeroplanino a elica poco più veloce di un’auto. E non m’è successo niente. Niente! La Cia non esiste».
Perché fondò il Nuovo movimento e si fece eleggere in Consiglio regionale?
«Più sali in alto e più trovi amoralità, fatta di gesti o di silenzi. Volevo essere la volpe nel pollaio. Chiunque mi conosca, sa che non riesco a passare più di mezz’ora in una stanza ad ascoltare blablà, figuriamoci in un’aula consiliare. Se bombardo una città e la distruggo, faccio chimica inorganica, non cresce più niente. Dovevo spezzonare, destrutturare, perché nei sistemi biologici è così che fiorisce il nuovo. Infatti poi arrivò Renato Soru».
Tiscali.
«Un’espressione di Internet, sì. Che non è solo un fatto tecnico. Internet è il solvente della società, dei rapporti di forza. Marx non era capace di usare un telaio, ma sapeva che cosa comportava l’avvento di un telaio sul piano politico. Oggi si possono discutere le scelte di Soru, alcune sue forme di khomeinismo. Ma non v’è dubbio che la situazione in Sardegna è stata azzerata. Missione compiuta. Mi dimisi due giorni prima che scattasse il diritto alla pensione».
L’arte delle dimissioni l’ha imparata da Cossiga?
«I miei rapporti con Cossiga dipendono dalle rispettive ciclotimie. Non gli ho mai perdonato di non aver salvato Aldo Moro».
Si narra che una volta lei l’abbia invitato nella sua villa per poi piantarlo in asso. Alla fine la trovarono in una stanza seduto al pianoforte.
«Non ricordo, ma è verosimile».
Ha fondato televisioni, è sceso in politica, però non è riuscito a diventare Berlusconi. Come lo spiega?
«Non volavo. Avevo una paura fottuta dell’aereo, usavo solo la nave. Mi ha curato Sergio Tomaselli, uno psichiatra di Como».
Un suo amico la descrive così: «Nichi è capace di costruire grandi cose e di distruggerle con le proprie mani: amicizie, amori, aziende, la sua stessa vita». Si riconosce nel ritratto?
«Assolutamente sì».


Le capita spesso di annoiarsi?
«In questo periodo no».
Ed è felice?
«No».
Perché no?
«Mi sento un po’ disadattato. Ma perché dobbiamo fare questa intervista?».
È finita.
«Che casino!».
(355. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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