A mintore Fanfani fu pittore astratto di una certa qualità, al punto da meritarsi una presentazione di un critico importante come Ragghianti. Nei giorni duri del carcere Ottaviano Del Turco ha trovato conforto nella pittura, linguaggio che porta avanti con costanza da oltre vent’anni. Gina Lollobrigida da quando ha smesso di recitare non fa che produrre bronzi e marmi, per non parlare di Romina Power, tornata ai pennelli dopo la separazione da Al Bano, o di Amanda Lear, per un certo periodo musa ispiratrice di Salvador Dalì, attratta dalle atmosfere surrealiste certamente mutuate dal maestro. E aspettando di vedere i quadri di Luciano Pavarotti, ci accontentiamo delle atmosfere falso-primitive di Franco Battiato, in mostra (pare con un certo successo) a Lodi, seppur sotto pseudonimo.
Quella del vip che si sente artista è una mania universalmente diffusa, e spesso fa davvero simpatia assistere alla naiveté di personaggi universalmente noti alle prese con pittura, scultura, fotografia. Diverso è il caso di chi artista si sente nell’animo, per dono del cielo, ed è allora convinto di potersi misurare in qualsiasi ambito creativo, sentendosi talmente bravo da superare i confini e le barriere della logica. In casi del genere la griffe fa davvero tanto, ovvero apporta quel valore aggiunto che altrimenti farebbe scivolare il prodotto nell’anonimato: che differenza c’è, ad esempio, tra le foto cubane di Wim Wenders e quelle di un normale turista? Sottile, decisamente. E le visioni notturne sullo skyline di Manhattan firmate Lou Reed sono proprio distanti da quelle di un viaggiatore arrampicatosi sull’Empire State Building? La diversità riguarda soprattutto la firma prestigiosa dell’autore posta in calce.
Nel mondo del rock la situazione è invece diversa. Soprattutto nelle ultime generazioni, gli artisti sono abituati a esprimersi a 360 gradi scavallando i generi e presentandosi come creativi a tutto tondo. Una forma di art-rock decisamente innovativa e, per certi versi, necessaria alla genesi dell’opera stessa. Bando al dilettantismo, qui esiste una fiera consapevolezza del proprio ruolo, forti del fatto che dopo la rivoluzione punk non si è più posta la necessità di sapere suonare per fare il musicista, né tantomeno di sapere dipingere per autodichiararsi pittore.
Sbarca in Italia, alla Triennale Bovisa di Milano, It’s Not Only Rock'n'Roll, Baby!, mostra che arriva da Parigi e Bruxelles e che mette in evidenza proprio questa doppia identità, questa sorta di dualismo non conflittuale tra musica e arti visive (fino al 26 settembre). Ad esplicitare una tendenza ormai diventata moda nelle gallerie e nei club di New York, sono stati chiamati alcuni genitori nobili che da decenni si muovono in entrambe le direzioni, con risultati alterni. Se tutto sappiamo di Yoko Ono, esponente Fluxus che ha moltiplicato all’infinito la propria popolarità incontrando John Lennon, se non ci sfugge la ricerca rigorosa in ambito avanguardista di Laurie Anderson, ma che noia, e di Brian Eno, eccellente produttore oltre che artista e musicista, si conosce meno l’attività di scultore di Brian Ferry, già maturata negli anni ’70 ai tempi del Glam Rock.
Fu proprio quel decennio a introdurre figure carismatiche che volevano giocarsela in entrambi i territori, a cominciare dall’oscura band californiana The Residents, che si presentava sul palco come un’installazione grandguignolesca. Seguiranno le polaroid di Patti Smith, influenzate dal rapporto con Mapplethorpe, le foto e le installazioni di David Byrne, ex-Talking Heads e, soprattutto, le sculture luminose di Alan Vega, fondatore dei Suicide, che a distanza di trent’anni è tornato all’arte influenzando con il suo stile precario e delirante le nuovissime generazioni.
L’esplosione del nuovo art-rock è infatti da situarsi dal 2001 in poi, quando la scena americana sembra paralizzata dall’attentato al WTC e invece si riprende con fulminea rapidità introducendo linguaggi molto più fluidi e immediati. Sono soprattutto i musicisti del New Acoustic Mouvement a scegliere la tecnica del disegno (Devendra Banhart, diventato una celebrities da galleria, Kyle Field dei LittleWings), o della piccola installazione realizzata con materiali di scarto (Bianca Casady delle CocoRosie), anche se in mostra manca il più bravo di tutti, ovvero Daniel Johnston, uno che sprizza autenticità e non conosce il calcolo.
Da lì la tendenza si è dipanata nella musica elettronica, con il duo Fischerspooner, perfomer e fotografi, la dj Miss Kittin, illustratrice fumettistica, nel post punk di Nick Zinner, chitarrista degli Yeah Yeah Yeahs, debitore della tecnica snapshot molto in voga da un decennio, dei Kills, cultori della polaroid, fino alle post-femministe Chicks on Speed che pescano a piene mani dal collage Dada-Situazionista.
In quest’ambito, decisamente vivace e divertente ma senza picchi di creatività assoluta, spiccano due figure carismatiche per motivi radicalmente diversi. Da una parte Antony, lunare e malinconico raccoglitore di frammenti poetici, dall’altra Pete Doherty, forse l’ultima rockstar maledetta che non poteva non «scandalizzare» il pubblico intingendo il pennino nel suo stesso sangue per poi disegnare immagini comunque piuttosto interessanti.
La tappa milanese si arricchisce di una presenza italiana, Andy, ex tastierista dei Bluvertigo, impegnato ormai a tempo pieno su una pittura pop.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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