Chi riesce a fuggire dalla Libia in queste ore racconta di un Paese nel caos, preda di una violenza inarrestabile. Il perché si comprende: i rivoltosi sanno che il regime di Gheddafi cadrà in questi giorni o non cadrà più. Cadaveri nelle strade, ammutinamenti, città prese e cadute: è l’ora del tutto per tutto. Quantificarne gli effetti è compito arduo: fino a due giorni fa si parlava di un migliaio di morti, ora si inseguono cifre paurose.
Un medico francese al lavoro nel mattatoio di Bengasi parla di duemila morti solo nel capoluogo della ribelle Cirenaica; ma la televisione al-Arabiya spara addirittura diecimila morti e cinquantamila feriti in tutta la Libia, un Paese che ha sei milioni di abitanti in tutto. Pare impossibile. Ma è certamente impressionante ciò che mostra un video, girato sul litorale di Tripoli: un gruppo di persone intente a scavare nella sabbia decine di fosse all’esterno di un cimitero, probabilmente giunto al limite della capienza. Immagini tipiche della tragedia della guerra civile.
Le testimonianze si contraddicono in un groviglio difficilmente districabile. Ad esempio, testimoni riprotati dalla BBC parlnao di squadre della morte in giro per Tripoli con pistole e spade, mentre il nostro ambasciatore in Libia Vincenzo Schioppa assicura a Sky-Tg24 che a Tripoli «la situazione appare calma», che «nei giorni scorsi ci sono stati episodi molto gravi ma non posso confermare bombardamenti nel centro di Tripoli: vi sono motivi di grandissima preoccupazione, ma titoli e notizie dei giornali su Tripoli sono stati perlomeno esagerati». Poi però si guarda un filmato agghiacciante ottenuto dal quotidiano britannico The Times e il messaggio che se ne ricava è opposto: contro i rivoltosi sono state davvero usate armi pesanti. I cadaveri e i feriti mostrati all’ospedale Jala di Bengasi sono smembrati in un modo che armi normali non possono produrre.
Per il regime il clima sembra davvero quello del si salvi chi può. E mentre Aisha, la figlia di Gheddafi, tenta invano di scappare all’estero, sconvolti dal dramma che devasta il loro Paese, decine di migliaia di libici sono già fuggiti oltre le frontiere tunisina ed egiziana, probabile avanguardia di un esodo di massa che potrebbe raggiungere - secondo le inquietanti previsioni di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne - il milione e mezzo di unità.
Fuggono da una battaglia che continua a divampare, testimoniando che Gheddafi diceva il vero quando mercoledì in televisione giurava di voler morire da martire piuttosto che arrendersi. Anche perché sa bene che per lui e per i suoi non ci sarebbe pietà, ma certamente una fine orribile. Risulta che tre navi da guerra libiche sarebbero dirette su Bengasi per bombardarne il porto, dopo che un aereo dall’aeronautica militare libica si è schiantato nelle vicinanze: i piloti avevano preferito abbandonarlo coi paracadute piuttosto che ubbidire all’ordine di sganciare bombe sulla città. Contemporaneamente, un neonato Movimento islamico chiede all’aviazione libica di «porre fine al massacro colpendo il covo di Gheddafi». Nell’Ovest del Paese, Tripoli sembra in effetti più calma ma il suo sobborgo di Tagiura sarebbe in mano ai ribelli, così come le città di Misurata e Zuara.
I ministri rimasti fedeli al raìs battono sul tasto del complotto firmato Al Qaida. A Derna in Cirenaica, ha detto il responsabile degli Interni Khaked Kaim, l’autoproclamato emiro islamico è Abdel Hakim Hussadi, un ex detenuto a Guantanamo. In quella città «i terroristi minacciano la popolazione, reclutano giovani a pagamento e impongono sanzioni e punizioni, come i talebani in Afghanistan». Libia dalla padella nella brace, insomma. La comunità internazionale sembra preferire la seconda: Onu, Usa e Ue pensano a sanzioni per piegare il tiranno assetato di sangue. Eppure anche un futuro islamico dovrebbe far molta paura, e non solo ai libici.
Qualcosa di più consistente, però, si sta forse preparando.
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