Il francescano che spinse l’Italia in salita

Rifletteva su quanto era accaduto in Italia seduto sulla terrazza dell’hotel di Cannes, quando fu chiamato al telefono. Distolse gli occhi dal mare e andò a rispondere. «Mi riconosci?», chiese una voce nota e aggiunse: «Sono Alcide De Gasperi».
Lui e il presidente del Consiglio si conoscevano dal 1935, presentati da comuni amici dell’Azione Cattolica. De Gasperi era un oscuro bibliotecario vaticano, malvisto dal Fascismo. Il Nostro, un ventunenne devoto che faceva professione di castità, purezza e mitezza. Si erano anche rivisti nei seminari organizzati dalla Curia fiorentina prima della guerra. Poi la vita li aveva divisi e l’uno sapeva dell’altro solo dai giornali. Ma la telefonata ebbe egualmente i tratti della complicità.
«A Roma c’è grande confusione», disse con franchezza De Gasperi e, arrivando al punto, gli espose il piano. «Sarebbe importante se riuscissi a realizzarlo. Non soltanto per te», concluse. Il trentaquattrenne promise di fare il possibile e, puntualmente, ci riuscì. Quando Matteo Tonengo, deputato del Partito dei Contadini, annunciò all’Aula di Montecitorio il felice esito della missione «scoppiò - ricorda Giulio Andreotti - un applauso fragoroso da tutti i banchi». «La notizia - aggiunge Mario Scelba nelle sue memorie - scatenò nel Transatlantico un’euforia che fece dimenticare le infelici circostanze». Il terziario francescano (tale era l’amico del premier) riempì le prime pagine e divenne ancor più eroe nazionale di quanto già non fosse. De Gasperi gli telefonò per ringraziarlo. «Chiedi ciò che vuoi e te lo daremo», esagerò il premier. L’altro disse candidamente: «La guerra mi ha rovinato. Permettetemi di non pagare le tasse per un paio d’anni». Toccò al sottosegretario Andreotti spiegargli che neanche De Gasperi poteva esonerarlo dall’obbligo fiscale. Così il terziario restò con le pive nel sacco, felice però di avere reso un servizio alla patria gratis et amore Dei.
Nonostante detestasse la politica aveva già fatto altre scorribande nei suoi recinti, sempre a fin di bene. Lui, che durante il trionfo del regime aveva sempre rifiutato la tessera del Pnf, indossò per la prima volta la camicia nera nei mesi pericolosi del fascismo morente. Lo fece per favorire la fuga degli ebrei su richiesta del suo amico, Placido Giuseppe Nicolini, vescovo di Assisi. Costui, un sant’uomo trentino, aveva, d’accordo con Pio XII, messo in moto un astuto traffico di passaporti falsi per mettere in salvo gli israeliti. Il falsificatore, tale Nissim che risiedeva a Pisa, pensava a far recapitare i documenti ad Assisi. Di qui però, i documenti dovevano raggiungere il Vaticano che li avrebbe distribuiti ai bisognosi. Erano i mesi in cui, tra l’Umbria e Roma, pullulavano miliziani incattiviti per il «tradimento» fatto a Mussolini col 25 luglio ’43, 8 settembre e compagnia.
Come far pervenire le carte senza destare sospetti? Nicolini pensò subito al Nostro di cui era un fan. Lo convocò nell’Abbazia di San Damiano di Assisi e gli disse: «Mettiti la camicia nera, nascondi i passaporti nella canna della bicicletta e portali in Vaticano». L’idea di percorrere i 200 km tra Assisi e Roma non spaventavano affatto il terziario che era un patito delle due ruote. Ma che avrebbe detto se i fascisti lo avessero fermato? «Dirai che ti alleni. Avrai anche la camicia nera del bravo camerata. Con la tua notorietà cosa temi?», replicò il vescovo. Il Nostro si lasciò convincere e fece più volte la spola. Quando lo fermavano, era subito riconosciuto, rilasciava autografi e ripartiva libero come l’aria. Così, compì anche questa missione.
Più tardi, i miliziani di Firenze, la sua città, cominciarono a sospettare di lui e lo arrestarono con l’intenzione di fucilarlo. Ma di lì a due settimane la città fu liberata e il Nostro se la cavò. Nei primi giorni del dopoguerra fu fermato invece da partigiani rossi mentre pedalava dalle parti di Bracciano. «Tu sporco fascista - lo apostrofò uno -, io ti ho visto girare in camicia nera. Adesso saldiamo i conti». «Non so voi, ma io fascista non sono stato mai», replicò il terziario. Fu egualmente spinto contro un muro per essere freddato. Ma un altro intervenne in sua difesa e il Nostro uscì indenne anche da questa avventura. Commentò da filosofo: «Il fanatismo, di qualsiasi colore, distrugge l’umanità».
Nonostante abbia tagliato tanti traguardi e goduto di immensa popolarità fino alla morte a 86 anni, rimase sempre semplice e timorato di Dio. Ebbe una sola mania: portare con sé una bussola per orientare i letti degli hotel in cui soggiornava in modo da «non essere infastidito dalle onde elettromagnetiche». Quattro papi - Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II - lo additarono come «modello di vita e di virtù». Rifiutò innumerevoli volte di entrare in Parlamento.

L’ultima nel ’97, a 83 anni, quando il giornalista Vittorio Feltri gli propose dalle colonne del Giornale di sfidare nel Mugello il pm Antonio Di Pietro, candidato ds al Senato. Ma il Nostro replicò: «Mica posso cominciare a raccontare frottole proprio ora», e chiuse la faccenda. Coerente fino in fondo con la sua proverbiale schiettezza.
Chi era?

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