"La Franzoni è innocente, ecco tutti i buchi della perizia"

Giovanni Migliaccio è il neurochirurgo che ha ispirato il libro "Cogne. Un enigma svelato". Non parla di testa scoppiata. Però si dice convinto che anche la Cassazione sia andata in cerca a tutti i costi di un colpevole. Che non c’è...

"La Franzoni è innocente, 
ecco tutti i buchi della perizia"

«Da medico io dico che Annamaria Franzoni non è un’assassina. Non ha ucciso Samuele. Però provi per un attimo a mettersi nei panni di una madre che s’è sempre proclamata innocente e risponda a questa domanda: condannato senza prove per aver ammazzato un figlioletto di 3 anni e rinchiuso in galera, lei si batterebbe per ottenere un nuovo processo, col rischio di beccare l’ergastolo, oppure si rassegnerebbe a scontare 16 anni teorici, già scesi a 13 per effetto dell’indulto e ulteriormente riducibili a 6 o 7 con la buona condotta e gli altri sconti di pena?».
Il dottor Giovanni Migliaccio, 60 anni compiuti pochi giorni fa, dirigente dell’unità operativa di neurochirurgia all’ospedale Fatebenefratelli di Milano, lascia che le parole svaniscano fra le volute di fumo della quarta sigaretta. Non si aspetta risposta. Sa già qual è la risposta che chiunque sia provvisto di sano realismo darebbe a questa domanda.
È stato lui a ispirare il libro Cogne. Un enigma svelato di Maria Grazia Torri, la giornalista-scrittrice sopraffatta dal cancro dopo una solitaria battaglia a favore della Franzoni, ed è quindi a lui che bisogna tornare per capire il pasticciaccio brutto di Cogne. Ogni anno esegue personalmente dai 200 ai 250 interventi al cranio e alla colonna vertebrale. Dopo aver letto il referto dell’esame necroscopico compiuto dal professor Francesco Viglino e gli atti dei tre processi che hanno condannato Annamaria Franzoni, il dottor Migliaccio s’è persuaso che il piccolo Samuele sia morto per cause naturali. «Purtroppo anche nell’ultima sentenza della Cassazione leggo soltanto che “la possibilità dell’azione di un estraneo è stata esclusa al di là di ogni ragionevole dubbio”. I giudici perseverano nell’errore di fondo: quello che si dovesse comunque ricercare un colpevole. Mentre in questo caso il colpevole non c’era. L’ipotesi della morte naturale non è stata neppure considerata. Nessuno - investigatore, perito medico o magistrato che fosse - s’è preso la briga di vagliarla».
Il neurochirurgo va ripetendo da anni queste cose, ma l’unica che ha sposato la sua tesi è stata la Torri. «Abitava a 500 metri da qui, per mesi ha frequentato casa mia. Le ho messo a disposizione documenti clinici, carte processuali, tutto ciò che sapevo. Se ne è servita con qualche imprecisione. Ma scrivere non è il mio mestiere, né la medicina era il suo. Io speravo solo che un libro smuovesse le acque, ero convinto che qualcuno si sarebbe deciso a valutare la possibilità di un madornale errore giudiziario. Stiamo parlando di una presunta innocente, la quale, dopo aver perso il suo bimbo in quel modo terribile, viene strappata agli affetti che le rimangono, al marito Stefano, ai figli Davide e Gioele, e incarcerata. E invece niente, non è successo niente».
La famiglia Lorenzi è stata la prima a non cavalcare la sua tesi. Un po’ strano, non trova?
«Qualche giorno fa ho parlato col padre di Stefano Lorenzi, marito di Annamaria, e mi sono convinto che la famiglia, già scottata da indagini lacunose e sentenze ingiuste, abbia scelto sia pure a malincuore il male minore per evitare alla condannata una pena ancora più pesante».
La testa che «esplode» era una teoria difficile da sostenere in giudizio.
«Mettiamo subito in chiaro una cosa: non è esplosa nessuna testa. Questa semplificazione verbale nasce dalle parole concitate che la Franzoni pronunciò la mattina del 30 gennaio 2002, quando telefonò alla dottoressa Ada Satragni, suo medico curante e vicina di casa, urlandole che Samuele perdeva sangue dalla bocca e che gli era “scoppiato il cervello”. Diciamo che con intuito materno s’era avvicinata alla verità».
E qual è la verità?
«Primo: nel cervello del bimbo si rompe un aneurisma, cioè l’anomala dilatazione congenita di un’arteria. Secondo: si produce un versamento ematico; il sangue finisce negli spazi subaracnoidei, cioè fra le pieghe dell’encefalo, e nei ventricoli cerebrali, che sono le cavità naturali in cui è contenuto il liquor cerebrospinale. Terzo: l’aumento della pressione endocranica, provocato dal versamento ematico, scatena una crisi epilettica. Quarto: il cervello in sofferenza si gonfia rapidamente. Quinto: poiché la scatola cranica non è espansibile, l’aumento di volume dell’encefalo crea inevitabilmente una compressione del tronco cerebrale, ciò che irrita il centro del vomito. Sesto: la crisi epilettica dà luogo a contrazioni violente del capo e degli arti; la testa e le braccia subiscono brusche flessioni in avanti, all’indietro e di lato, vanno a sbattere contro la spalliera del letto e contro il comodino, il che spiega le fratture del cranio e le contusioni al secondo e terzo dito della mano sinistra».
Com’è arrivato a queste conclusioni?
«Leggendo la perizia necroscopica e guardando le foto dell’autopsia che mi sono state messe a disposizione dal suocero della Franzoni. Il professor Viglino descrive come “fortemente appiattite” le circonvoluzioni dell’encefalo, parla di “solchi ripieni di materiale ematico per la diffusa emorragia subaracnoidea” e accerta l’inondamento dei ventricoli cerebrali. Tutte situazioni tipiche del sanguinamento da aneurisma».
Può citarmi casi simili riportati nella letteratura scientifica?
«Casi così paradigmatici non ne conosco. Però questo non significa nulla. È possibile che non siano stati esaminati a fondo oppure che li abbiano archiviati erroneamente sotto altre cause. Esempio: un muratore precipita dall’impalcatura dell’ottavo piano e muore; gli inquirenti si concentrano sulla mancanza delle misure di sicurezza, nessuno va a controllare se il poveretto ha perso l’equilibrio per la rottura di un aneurisma cerebrale».
Perché s’è preso la briga di contattare i Lorenzi?
«Lo chiami impulso civico, lo chiami coinvolgimento professionale ed emotivo, lo chiami come vuole. Una sera, vedendo per caso Porta a porta, ho sentito un giudice che parlava dei 17 colpi con cui era stato massacrato Samuele e si portava la mano alla fronte per dare più forza al racconto. Ho subito pensato: e chi li ha contati 17 colpi sul cranio di un bimbo di 3 anni? Sul torace, sulla schiena si possono contare i colpi. Ma su un ovoide no. Faccia lei stesso la prova: picchi più volte con un cucchiaino su un uovo sodo e poi conti quanti colpi ha dato. Impossibile stabilirlo».
Idem su una testa fracassata.
«La gente immagina che il bimbo avesse la testa ridotta in poltiglia. Sbagliato. Solo due ferite, le più ampie, erano lunghe 5 centimetri. Le altre misuravano da circa un centimetro a 5-6 millimetri, la più piccola 2-3 millimetri di larghezza e 2 di profondità. Lesioni quasi puntiformi, insomma. L’assassino avrebbe dovuto usare due diversi oggetti contundenti, tipo un martello e un punteruolo. Addirittura una frattura a mappamondo nella regione parieto-occipitale, senza lesione della cute e quindi compatibile con un violento colpo contro la testiera del letto durante la crisi epilettica, fu scoperta all’obitorio solo dopo la rasatura del cuoio capelluto. Appare un po’ assurdo che la madre sia riuscita a percuotere una zona vicino alla nuca se la testa era adagiata sul cuscino, le pare?».
Com’è possibile che il sangue sia schizzato sino al soffitto da ferite di appena 2 millimetri?
«Sto ancora aspettando che qualcuno me lo spieghi. Dal mio punto di vista è dipeso dal vomito a getto, che può arrivare fino a 6 metri di distanza. Il sangue essiccato imbrattava il volto di Samuele, lo attesta la perizia autoptica. Quindi presumo che un potente getto di vomito abbia proiettato sul soffitto parte di quel sangue che colava dalla fronte fino a bagnare la bocca. Invece la Cassazione attribuisce le macchie “al brandeggio dell’arma, munita di manico di una certa lunghezza”. Perbacco, avrebbe dovuto essere un pennello intinto in una bacinella! Ma un pennello non sfonda la teca cranica. Qui non siamo nel Macbeth, non c’è alcun effetto pozzanghera che possa spiegare quegli schizzi. Solo il vomito a getto può spiegarli».
Come fa a esserne così sicuro?
«È lo stesso professor Viglino nella sua perizia a dichiararlo: “È ben difficile che stante la loro dislocazione si siano potuti produrre spruzzi con proiezione di sangue a distanza se non di qualche centimetro a seguito della lesione arteriosa”. Più chiaro di così! E poi qualcuno mi deve anche spiegare come sia stato possibile che la madre, in preda alla furia omicida derivante da uno stato psichico alterato, abbia inferto i colpi solo alla testa. Qualche fendente su altre parti del corpo le sarebbe dovuto scappare per sbaglio. Hanno sostenuto che le lesioni alle dita di Samuele si sono prodotte mentre il bimbo cercava di difendersi portando la mano sinistra al volto. Ma, dico io, avete mai visto qualcuno ripararsi istintivamente da una gragnuola di mazzate con una mano sola anziché con due?».
Il pigiama indossato dalla madre era insanguinato.
«È francamente arduo pensare che la Franzoni lo abbia lasciato sul letto dopo aver ucciso. Fa sparire l’arma del delitto ma non il pigiama che la inchioda? Andiamo! E poi, quand’anche lo avesse indossato, nel toglierselo le forme delle macchie di sangue si sarebbero modificate. Ancora: possibile che neppure una goccia di quel sangue arrivato fino al soffitto l’abbia raggiunta al volto? Oppure ha avuto il tempo di farsi la doccia e asciugarsi i capelli perfettamente in pochi minuti? L’infallibile luminol usato dai Ris non funziona sul cuoio capelluto, sul viso, sui lavandini, nella doccia? Ma v’è un’altra lacuna sconcertante nella perizia necroscopica».
Quale?
«Poiché fu ventilata l’ipotesi che il delitto fosse stato compiuto da un maniaco, mi sarei atteso che il professor Viglino ispezionasse anche la regione genitale e perianale per escludere la violenza sessuale. Con mia grande sorpresa ho invece constatato che la sezione cadaverica è stata eseguita soltanto sugli organi del collo, del tronco e dell’addome. Hanno controllato il cuore, i polmoni, lo stomaco, i visceri, ma non il resto. Basterebbe già questo a invalidare l’esame medico-legale».
Ha provato a confrontarsi con Viglino?
«Con lui no. Ho scritto al professor Carlo Torre, perito di parte della famiglia Lorenzi. Mi ha risposto con una mail laconica che diceva pressappoco: “Ho ricevuto le tue considerazioni però il bambino non è morto per cause naturali”».
A quel punto la sua battaglia era già persa in partenza. Perché combatterla, allora?
«Ho ritenuto mio dovere instillare il dubbio. Andai a Monteacuto Vallese a parlare per tre ore col marito e col suocero di Annamaria. Erano scettici anche loro. Li scongiurai di raccomandare agli avvocati di sollevare le mie obiezioni. Non lo fecero. Dopo la sentenza gli ho scritto che un po’ se l’erano voluta. Mi ha risposto Stefano Lorenzi, dicendo che la mia tesi era “impercorribile”. Non sbagliata, non cervellotica. La strada c’era, ma non hanno voluto percorrerla. Posso capirli. Si saranno convinti che mai e poi mai la magistratura avrebbe riconosciuto l’errore giudiziario. Sarebbe stata una sconfitta storica. Eppure io penso che il dubbio albergasse anche nei giudici».
Che cosa glielo fa credere?
«In primo grado il pubblico ministero chiede e ottiene 30 anni di reclusione per omicidio volontario. In appello l’imputata è condannata a 16. Che riduzione di pena! Ma il Pm non presenta ricorso, gli sta bene così: si vede che nemmeno lui era convinto fino in fondo della colpevolezza. Dopodiché si lascia che la Franzoni viva a casa propria sino al verdetto definitivo della Cassazione e alla conseguente carcerazione. Mi domando: la legge non prevede l’arresto per evitare la reiterazione del reato? E allora perché hanno lasciato libera una pazza che avrebbe potuto ammazzare anche gli altri due figli? Ricordo che nel 2002 psichiatri alla Crepet e criminologi alla Bruno dicevano che, tempo un mese, sarebbe crollata, avrebbe confessato. Invece questa donna nel 2003 ha fatto un altro figlio, ha accudito il primogenito e il fratellino per sei anni, senza mai dare un segno di cedimento o di squilibrio psichico, psicologico o comportamentale, nonostante la tragedia vissuta. Possibile che un’assassina mantenga una tale lucidità dopo aver massacrato un figlio?».
Perché nessun medico ha solidarizzato con lei?
«Non è così. Ho avuto molte attestazioni private di solidarietà. Per esempio il professor Luigi Bruni, docente nella clinica dermosifilopatica dell’Università di Pavia, mi ha scritto: “Concordo pienamente con l’idea che la rottura di un aneurisma fu determinante nel produrre la diffusione a distanza di sangue e di materia cerebrale. Lesioni provocate dall’esterno per il trauma inferto da corpi contundenti di qualsiasi tipo non possono assolutamente portare a una simile diffusione di frammenti”».
Mi sfugge quale possa essere la competenza neurochirurgica di un medico, Bruni, che si occupa di malattie sessualmente trasmissibili.
«Ha ragione. Ma, vede, è il luminare che nel 1989 fece scagionare Lanfranco Schillaci, lo stimato docente di matematica residente a Limbiate, nel Milanese, sbattuto in prima pagina come un mostro con l’accusa d’aver violentato la figlia Miriam di due anni. Il medico dimostrò invece che il paracetamolo somministrato alla bimba per una febbre persistente, causata da un tumore che sarebbe stato scoperto di lì a poco, aveva provocato nella zona genito-anale un eritema fisso da medicamento, la cui peculiarità è di assomigliare a un’ecchimosi e di sembrare frutto di una contusione. Di qui l’abbaglio giudiziario e l’accusa infamante contro l’incolpevole genitore. “Come vede, noi medici possiamo fare tanto bene ma anche tanto male”, ha aggiunto il professor Bruni nella sua lettera.

“Cerchiamo con le nostre possibilità di fare tanto bene, anche smentendo il parere di colleghi che, forse, hanno peccato di superficialità e di presunzione”. È quello che ho cercato di fare».
(421. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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