Il fatto già lo conoscete. Il duo Ludwig è libero. Marco Furlan s’è visto notificare il «fine pena» il 3 gennaio. A giorni sarà il turno di Wolfgang Abel. Riconosciuti colpevoli dalla Cassazione di 15 dei 28 delitti che gli erano stati attribuiti, i due veronesi hanno pagato il debito con la giustizia e ora vogliono soltanto essere dimenticati, riferiscono le cronache. Furlan era stato condannato a 27 anni di reclusione. Se non ho fatto male i calcoli, fra condoni e sconti di pena per buona condotta ne ha passati dietro le sbarre non più di 20. Don Guido Todeschini, che andava a trovarlo nel carcere milanese di Opera, mi assicura che l’uomo - oggi ha 52 anni - è cambiato. Me ne rallegro. Solo che sul Corriere di Verona ho letto una dichiarazione inquietante (aggettivo abusato, lo so, però stavolta oltremodo appropriato). Sulle prime ho sperato che la cronista dell’edizione locale del Corriere della Sera avesse equivocato. Ma siccome me l’ha confermata e l’interessato non l’ha smentita, tocca registrarla: «Furlan aspira adesso a “realizzare il suo vero progetto - spiega l’avvocato che lo assiste, Corrado Limentani - lo studio di un dispositivo elettronico capace di eliminare il male dal cervello”. Un progetto quantomeno ambizioso». Ignoro se il sogno di Furlan, che nel frattempo s’è anche laureato due volte (fisica e ingegneria), sia quello di togliere dal cervello il male inteso come dolore fisico, nel qual caso gli spetterebbe di diritto una terza laurea honoris causa in medicina e la candidatura al premio Nobel. Però v’è da augurarsi che sia così e che l’ex detenuto non aspiri a rimuovere dall’intelletto umano, con qualche accrocco di elettrodi, il male inteso come mysterium iniquitatis. Purtroppo, sia nella prima che nella seconda eventualità, la dichiarazione si presta ai più angosciosi presagi giacché cancellare il male dalla faccia della Terra fu precisamente la fissa paranoide del duo Ludwig fin dal primo delitto, il 25 agosto 1977: un nomade pregiudicato arso vivo nella sua roulotte in un quartiere periferico della città scaligera. L’«azione purificatrice» di Furlan e del suo complice Abel si dispiegò nei successivi sette anni contro tutte le forme di devianza presenti nella società (furono massacrati omosessuali, tossicomani, prostitute, spettatori di film a luci rosse, frequentatori di locali notturni) e a tutte le latitudini (a Milano il cinema Eros sexy center, a Monaco di Baviera la Sex diskothek Liverpool, ad Amsterdam il sexy club Casa rossa). Volevano fermare il male, impedire all’umanità di abbandonarsi al vizio. «Al Liverpool non si scopa più», fu l’icastica rivendicazione nel volantino di Ludwig dopo il rogo in Germania. Si notava già allora questo afflato planetario. Se proprio non si poteva sradicarlo dall’animo umano, il male andava almeno cancellato dai rioni, dalle città di provincia, dalle metropoli, dalle nazioni, secondo la logica del «colpirne uno per educarne cento» che le Brigate rosse avevano mutuato da una massima di Mao Tse-tung, piuttosto bizzarra in chi proclamava: «La nostra fede è il nazismo». Lo strumento salvifico prescelto fu la dissuasione. Mostrare al mondo un anticipo d’inferno, con i dannati che bruciavano tra le fiamme, dovette apparire ai due un efficacissimo deterrente. Si sa come andò a finire: furono catturati mentre, travestiti da Pierrot, tentavano di fermare col fuoco il sabba carnascialesco di 400 giovani stipati nella discoteca Melamara di Castiglione delle Stiviere (Mantova). In mezzo v’era stato spazio anche per il sacrificio «di coloro che tradiscono il vero Dio». La Chiesa andava punita per la sua pretesa arrendevolezza dinanzi al dilagare del libertinaggio. Ne fecero le spese due poveri frati vicentini, finiti a martellate lungo il sentiero che porta al santuario di Monte Berico, e un anziano prete di Trento. A tutti e tre venne aperto il cranio. E del resto non è forse lì, nel cervello, che si annida il male? Capisco che il rammentarlo oggi può indurre una macabra suggestione. Ma la storia, specie se scritta col sangue, non si cancella: a padre Armando Bison fu conficcato nella testa un punteruolo al cui manico era stato saldato un crocifisso, quasi si volessero bonificare i pensieri del religioso, riconsacrarne le meningi. Io mi auguro, anzi sono certo, che il cittadino Marco Furlan oggi è un’ottima persona. Ma quando leggo che il suo principale progetto da uomo libero è mettere a punto un aggeggio che elimini il male dai cervelli, ho il diritto di provare un brivido. C’è infatti una lacuna che non è mai stata colmata, in tutta la vicenda giudiziaria. Chi era Ludwig? Perché i due giovani veronesi adottarono questa identità per firmare i loro crimini? I processi non hanno mai fatto chiarezza in proposito. Poiché nell’abitazione di Abel gli inquirenti trovarono una copia dell’Avventura di un povero cristiano, il giudice istruttore immaginò un collegamento con Ludovico da Macerata, l’inflessibile frate che nel romanzo di Ignazio Silone si scaglia contro il tralignamento della Chiesa. Furono per la verità tirati in ballo anche Ludwig di Baviera, Ludovico da Caloria e Ludovico vescovo di Tolosa. Ma lo scrittore Valerio Evangelisti, autore del ciclo di romanzi che hanno per protagonista l’inquisitore Nicolas Eymerich, avanzò un’altra ipotesi: Abel e Furlan si sarebbero in realtà ispirati alla «metafisica biocentrica» di Ludwig Klages (1872-1956), psicologo e filosofo tedesco studioso del carattere umano, autore del trattato Lo spirito avversario dell’anima, mai tradotto per intero in italiano, secondo il quale «una masnada di razze sporche e inferiori - ebrei, sbandati, gente senza dignità - ha fatto irruzione nella storia, innescandovi un cancro che ormai non ha rimedio». E tutto ciò perché «lo spirito, da intendersi come ragione, si è incuneato nell’incontro tra corpo e anima, impedendolo per sempre». Se queste sono le premesse, sembrerebbe coerente il proposito di lavorare sul cervello per eradicare il male. Volendo restare nei paraggi, gioverà ricordare che il duo Ludwig evitò l’ergastolo grazie alla seminfermità mentale; che Abel, dopo l’arresto, tentò il suicidio cinque volte e Furlan due, se non ricordo male; che Luigi Lanza, giudice estensore della sentenza nel processo d’appello, arrivò a dichiarare: «Per la conoscenza che abbiamo della contorta psicologia del ricercato, si potrebbe persino pensare che abbia cambiato sesso» (in quel periodo Furlan, rimesso in libertà per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva e fuggito dal paesino del Padovano dov’era stato mandato in soggiorno obbligato, cercava di sottrarsi all’Interpol: fu scovato casualmente a Creta soltanto quattro anni dopo per l’intraprendenza di un turista). Questo è, anzi era, Marco Furlan, il serial killer che agì per motivi ideologici, non pulsionali, così hanno sentenziato i giudici. Sarebbe interessante capire chi e come ha certificato il suo ravvedimento, considerato che in carcere rifiutò sempre di sottoporsi a perizia psichiatrica.
Comunque sia, auguri per lo studio sul benefico dispositivo elettronico da applicare al cervello. Ma non si dia troppa pena per la testa altrui: a noi può bastare che il male sia stato estirpato dalla sua.stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
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