Il furto del Roscellino

Il professor Berto Galovic, quella mattina si levò a fatica dal letto, distrutto dopo una notte insonne. Era stato il senso di colpa a tormentarlo. Esattamente ventiquattr’ore prima, cioè alle 10.30 del 4 febbraio 2011, egli aveva tradito la fiducia di un collega. Peggio, di un amico. Durante un convegno internazionale, aveva infatti recitato (sì, recitare è il verbo giusto...) una lectio magistralis su Roscellino di Compiègne carpita (sì, carpire è il verbo giusto... ) a Johann Winstant, ordinario di Storia della filosofia medievale all’università di Otterlo, in Olanda.
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Il lettore deve sapere che il professor Winstant, severo e integerrimo cattedratico sui sessant’anni, era anche, semel in anno, cioè proprio in occasione dell’annuale simposio cui s’è accennato, un formidabile bevitore di birra. Ebbene, la sera del 3 febbraio 2011, trovatosi a cena allo stesso tavolo di Galovic (il quale, sia detto per inciso, è rigorosamente astemio), Winstant ci aveva dato dentro alla grande, sciorinando al perfido... come vogliamo chiamarlo? ladro? sì, ladro è il termine giusto, ben più dell’abstract del proprio intervento, previsto per il pomeriggio successivo.
E il lettore deve anche sapere che io, trovatomi per caso nello stesso ristorante quella stessa sera, e conoscendo di vista Galovic per averlo visto qualche volta in televisione pontificare su questo e su quello, sono stato in parte testimone del suo crimine (sì, crimine è il termine giusto).
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«Allora, Johann, che cosa ci racconterai domani?».
«Eh, vecchio mio, Roscellino, lo sai, è una brutta bestia per noi storici della filosofia... ».
«Lo so, lo so bene... ».
«Dobbiamo ringraziare la buonanima di Abelardo. Altrimenti, nemmeno quella lettera avremmo... ».
«Certo, certo. Ma tu... hai qualcosa di nuovo?».
«Be’... proprio qualcosa di nuovo (e giù il primo boccale di birra, tutto d’un fiato, ndr)... non direi... ».
«Non ci credo, Johann. Secondo me tu hai qualcosa e non me lo vuoi dire... ».
«Non è che non te lo voglia dire... però (e, terminato l’antipasto di mare, giù la seconda birra media, ndr)... Insomma, qualcosa c’è. Sì, qualcosina... ».
«E allora, perché non me ne parli? Siamo o non siamo vecchi amici? Non ricordi quando ti passai, nel ’99, quella certa informazione sul codice di Guglielmo d’Auvergne da cui tu traesti la magistrale monografia che tutti conoscono? Non ti ricordi il favore che ti fece il tuo amico Berto?».
«Eccome se me lo ricordo. E ricordo anche che ricambiai quel favore. Due anni dopo, se non sbaglio, segnalandoti quella ricercatrice tedesca... come si chiamava?».
«Greta».
«Greta, ecco (e, prima di attaccare gli spaghetti all’astice, avanti con la terza birra, ndr). Greta... il cognome non l’ho presente. Ma ho presente molto bene tutto il resto... L’hai presente anche tu, vecchio porco, tutto il resto, vero? (e giù una risatona gutturale, ndr)».
«Sì, sì... Ma torniamo a Roscellino... ».
«Va be’... tanto domani lo sapranno tutti (e giù la terza birra, a spaghetti non ancora terminati, ndr). Dunque... ».
Purtroppo, proprio mentre Winstant, a non più di tre metri da me, stava per rivelare all’infido Galovic il contenuto della propria relazione sul nominalista medievale, con l’aiuto di altre cinque o sei birre inframmezzate da qualche puntatina in bagno, nel ristorante entrò, con 45 minuti di ritardo, la persona che stavo aspettando e della quale non è il caso di rivelare qui l’identità. Inoltre il tavolo che mi separava dai due professori venne occupato da un gruppetto di studentelli chiassosi. Quindi non posso riferire il prosieguo di quella interessante conversazione dal tono poco accademico.
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Dunque, la mattina del 5 febbraio 2011, Galovic si alzò dal letto, nella lussuosa camera dell’albergo a cinque stelle cui aveva diritto in qualità di relatore al ben noto simposio, con le ossa rotte e un lancinante mal di testa. Come se tutte quelle birre le avesse tracannate lui, non l’ingenuo Winstant. La coscienza sporca gli pesava sugli occhi, e cancellava l’euforia dovuta al successo ottenuto il giorno prima, quando aveva incantato l’uditorio con una lezione davvero magistrale durante la quale aveva rivelato che Roscellino, il canonico dell’XI secolo in odore di eresia...
Ma qui mi fermo. Chi vorrà saperne di più vada a leggersi il volume «Mysterium rationis». Roscellino di Compiègne e il nominalismo rovesciato, pubblicato da QUID Edizioni di Monza a firma Berto Galovic (leggasi Johann Winstant).
E il povero Winstant, vi chiederete? Possibile che non abbia denunciato la bieca manovra? Che non abbia sbugiardato il disonesto di fronte a tutti? È possibile, per il semplice fatto che egli ebbe la pessima idea di morire la notte fra il 3 e il 4 febbraio, verso le 2, per infarto, durante un convegno, molto più impegnativo di quelli accademici, con una cameriera, nella stanza confinante con quella di Galovic. Il quale Galovic, svegliato dalle urla della ragazza, fu il primo a tentare di rianimare Winstant, non prima, però, di essersi infilato sotto il pigiama, con mossa fulminea, la relazione su Roscellino che era appoggiata al comodino.
L’indomani nessuno fra i convegnisti, sconvolti dal drammatico evento, si chiese su che cosa vertesse la relazione di Winstant: il suo intervento fu semplicemente cancellato dal programma. Qualcuno dell’organizzazione si limitò a telefonare alla segretaria della vittima (sì, vittima è il termine giusto), su in Olanda. Winstant viveva solo, in una villetta di campagna, ed era suo costume non parlare mai (con una sola, fatale eccezione, come abbiamo visto...) con nessuno, nemmeno con la fidatissima Greta (sì, lei...) del proprio lavoro...
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E dunque Galovic si levò.
Si sentiva strano. Allargò le braccia per fare i soliti esercizi di ginnastica mattutini, ma non vi riuscì: una forza misteriosa, non materiale, non fisica, lo teneva, ne limitava i movimenti come in un ostile abbraccio. Terrorizzato, iniziò a respirare affannosamente. E poi riprovò con tutta l’energia, spingendo fino allo spasimo le braccia all’esterno, lontano dal corpo. Niente da fare, una specie di muro di gomma lo avvolgeva. Allora provò in avanti e all’indietro, ma ancora senza risultati. Gli mancava il fiato, ansimava. Si sentiva in trappola. Voleva gridare, chiedere aiuto, ma dalla sua gola non uscivano che mugolii indistinti. Lottò, disperato, per cinque, sei minuti. Poi il cuore cedette.
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Quando, alle ore 10.45 del 5 febbraio 2011, la donna entrò nella camera 303 dell’Albergo International per rassettarla (aveva bussato, ma non avendo ottenuto risposta pensò che il cliente fosse uscito e dunque aprì con la sua chiave), trovò il corpo senza vita di Berto Galovic steso a terra.


Lo circondavano quattro paia di enormi virgolette caporali. Di quelle che si usano, in un testo, per citare uno scritto altrui. Il professor Galovic, che non le aveva mai utilizzate in vita sua, era morto citando se stesso.

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