Gaeta non festeggia l'Unità d'Italia: siamo una città martire

Il sindaco della cittadina dove si rifugiò Francesco II di Borbone per l'ultima resistenza: «Non possiamo celebrare una sconfitta per la quale abbiamo pagato tanto. Prima lo Stato unitario dovrebbe risarcirci dei danni provocati dall'assedio. I Savoia? Una disgrazia nazionale»

«L'atto finale dell'Unità d'Italia si è compiuto a Gaeta. L'ultimo Re dei Borboni, Francesco II detto Franceschiello, si rifugiò a Gaeta che subì un tremendo assedio, durato 102 giorni: dal 6 novembre del 1860 al 16 febbraio del 1861. Morirono migliaia di persone, tra soldati e civili. Sulle macerie di Gaeta, si è potuto dare il via al Regno d'Italia e alla riunione del suo Parlamento, il 17 marzo 1861». Il sindaco di Gaeta (Latina), Antonio Raimondi, ricostruisce quei sanguinosi eventi di 150 anni fa, per «colpa» dei quali la sua cittadina, in questi giorni, non aderisce ai festeggiamenti dell'Unità d'Italia. «Consideriamo l'Unità un valore, ma non possiamo festeggiare la sconfitta in una guerra che abbiamo patito terribilmente e di cui paghiamo ancora le conseguenze - spiega il primo cittadino gaetano -. La città fu rasa al suolo, piantagioni comprese e chiese un risarcimento danni di 2 milioni 17 mila lire dell'epoca, l'equivalente odierno di 240 milioni di euro. Lo Stato unitario, non solo non ci ha mai ripagato dei danni di guerra, anzi, demanializzò tutta la città. Ancora oggi, oltre il 75% del nostro territorio è demaniale. Infine, proprio per farcela pagare, a Gaeta fu istituito il famigerato carcere militare, col quale per decenni è stata identificata. Per fortuna, il carcere non esiste più da tempo, ma la nomea ancora ce la dobbiamo tenere».
In realtà a Gaeta andò in scena il terzultimo atto bellico della conquista del sud che portò all'Unità nazionale. La cittadella di Messina si arrese il 13 marzo del 1861 e la fortezza di Civitella del Tronto una settimana più tardi, a Regno d'Italia già proclamato. Ma è vero che Gaeta è da sempre il simbolo della resistenza napoletana ai piemontesi. Anche perché le camicie rosse garibaldine furono tenute fuori dall'assedio.
Gaetani borbonici? «Non siamo borbonici - risponde Raimondi - anche se qualche nostalgico esiste ancora. Siamo italiani, europei. Ma è chiaro che 150 anni fa l'Unità d'Italia si fece anche sul nostro sangue, il sangue dei vinti, perché noi eravamo tra i vinti. Questo è il problema. Il nostro slogan per le celebrazioni dei 150 anni è: "La verità rafforza l'Unità". Noi vogliamo che si faccia verità storica sui fatti del Risorgimento, nel quale ci sono state luci e ombre. Dopo le luci, è tempo di mettere in evidenza anche le ombre». Sul Risorgimento, il sindaco della località sud-pontina sostiene: «Il Risorgimento fu una guerra fra italiani. Il vero Risorgimento italiano per noi è la Resistenza, quando abbiamo combattuto contro l'invasore straniero, i tedeschi, i nazisti. Noi non vogliamo essere secessionisti, come certi federalisti, vogliamo essere federalisti sul serio». Viva l'Italia ma risarcite Gaeta, le va bene come titolo? «Ci sto, ma aggiungo che Gaeta è l'emblema di tante altre città martiri del sud, dell'avanzata garibaldina e dell'esercito piemontese. Gaeta è l'emblema di tutto il sud, massacrato anche dopo l'Unità d'Italia». E il sindaco di Gaeta, come la pensa sui Savoia? «Abbiamo avuto la disgrazia di averli - risponde chiaro Raimondi -. Tra tante casate, siamo stati purtroppo unificati dalla peggiore in assoluto e i Savoia, più che italiani, erano francesi, dell'Alta Savoia appunto. Lo Statuto Albertino del 1848 sarà pure importante, ma non dimentichiamo una serie di cose.

I Savoia hanno permesso a questo paese di cadere sotto la dittatura del fascismo, hanno promulgato le leggi razziali contro gli ebrei, ci hanno trascinato nella seconda guerra mondiale e l'8 settembre 1943 il Re scappò con la sua famiglia da Roma, lasciando il paese in balia delle onde. Non nutro alcuna forma di rispetto o di riconoscenza storica verso i Savoia, una dinastia che all'Italia ha fatto solo male».

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