Quando accusavano «il Giornale» di distruggere perfino le foreste

di Enea Petretto

Caro dottor Lussana, è importante e gradevole riproporre l'uscita del primo numero del nostro «il Giornale» ma bisognerebbe andare a cercare o rammentare anche gli articoli apparsi su quotidiani dell'epoca per capire quanto ci avversarono (e con quale rabbia) gli «autenticamente democratici» di allora. Che poi sono gli stessi di oggi. Stesse idee, stessa democratica greppia.
Ricorderà che, in concomitanza all'uscita del nostro primo numero, iniziarono anche le tiritere sulla «deforestazione irresponsabile» del polmone verde amazzonico e di intere tribù di indios ridotte a fame e disperazione poiché, pubblicando «il Giornale», (noi lettori) deforestavamo un'area amazzonica grande quanto l'Austria. Naturalmente per la stampa «sinceramente democratica», il problema non esisteva. La carta, la loro carta, nasceva da rigogliose e democratiche piantagioni di fogli di giornale seminati nelle tipografie proletarie...
Come vede, caro Lussana, cambia tutto ma non cambia nulla. La maggior parte dei nostri avversari vivono di contributi e sovvenzioni e, per l'italico principio «chiamo babbo chiunque mi dia un tozzo di pane», ci siamo ridotti alle vicissitudini di oggi. Li abbiamo abituati a nutrirsi nei trogoli istituzionali.
Dovevamo insegnare loro a studiare e lavorare.
Comunque ricordare il primo numero (ma davvero è trascorso tanto tempo da allora? Santo cielo come ero giovane) mi allieta e mi ricorda Castelletto. Le passeggiate con moglie e figlie (piccolissime allora), incontri con amici ed amiche (ricordate i Decreti Delegati per la scuola?) e la giornalaia di piazza Villa che mi presentò il primo numero di quello che sarebbe diventato «il mio Giornale». Poverina.
Piuttosto timorosa (erano periodi strani, quelli), si guardava attorno mentre me ne proponeva l'acquisto. Ed io a traquillizzarla raccontandole di periodi molto più incerti quando, durante l'occupazione di Pola da parte dei comunisti di Tito, ero l'unico (o forse tra i pochi) che portavano, sfacciatamente e con il massimo orgoglio, la vietatissima fascetta tricolore (il nostro tricolore) all'occhiello della giacca.

Specialmente quando mi obbligavano a frequentare ambienti titino/comunisti. E si rischiava molto. Meglio non ricordare.
Cari saluti a lei, dottor Lussana (ma non doveva essere in crociera?) ed alla sua meravigliosa Redazione.
Enea Petretto

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