C’è un vecchio albero che resiste agli acciacchi e al vento, in un angolo sperduto del New Mexico. Succhia dalla terra l’umidità del fiume Gila, che nasce lì vicino, poco fuori la città fantasma di Clifton, e aspetta. Aspetta dal 17 febbraio 1909, quella pianta nodosa, di poter dare finalmente ombra alle spoglie del più famoso capo Apache, il leggendario Geronimo, colui che i suoi chiamavano in lingua chiricaua «Goyaalé». Ovvero - chissà mai perché? - «colui che sbadiglia».
Ciò che resta del condottiero, da quel giorno di cent’anni fa, quando morì di polmonite, ottantenne e inoffensivo, eppure ancora in una sorta di assurda libertà vigilata, riposa in un cimitero di Fort Sill, un buco dimenticato da Dio e dagli uomini in mezzo al piatto nulla dell’Oklahoma. Ed è da lì che suo bisnipote Harlyn Geronimo, classe ’47, cerca da decenni, con petizioni alla Casa Bianca, di riportare quelle gloriose spoglie proprio sotto l’albero dove il grande capo nacque, il 16 giugno 1829. E dove - così vuole la leggenda - sua madre ne sotterrò il cordone ombelicale.
Ma quella stessa America multietnica che accoglie e finanzia scienziati da premio Nobel dai mille sangui e dalle mille patrie differenti, dandoci straordinarie lezioni di libertà e tolleranza, a volte è anche capace di incomprensibili ottusità. Così Harlyn, dopo l’infinita serie di promesse tradite e di bugie mantenute da tanti presidenti «visi pallidi», spera ora in quel giovane nero che siede alla Casa Bianca. Lui, apache che rivendica con orgoglio di aver combattuto volontario in Vietnam - e per questo, rivela al quotidiano Le Monde, «alle ultime elezioni ho votato John McCain, eroe di quella guerra» - auspica di non dover dissotterrare la scure di guerra anche contro Barack Obama.
Intanto, per non sbagliare, è ricorso alle armi che usano in tempo di pace. «Insieme ad altri 19 discendenti diretti - spiega - ho citato in giudizio il presidente e il segretario alla Difesa per ottenere il trasferimento dei resti di Geronimo nella sua terra natale. Spero di riuscirci entro l’anno». All’attuale presidente riconosce di aver «nominato un pugno di indiani in alcuni posti importanti della sua amministrazione». Aggiungendo subito dopo, però, che «la storia dei neri d’America non ha nulla a che vedere con quella dei suoi primi abitanti».
«Mi ossessiona», dice, il pensiero che il Paese non conceda questo semplice onore al bisnonno, peraltro umiliato come fenomeno da parata dal presidente Theodore Roosevelt, che nel 1905 lo fece sfilare al suo insediamento, salvo poi rimandarlo a marcire in Oklahoma. «Come posso accettare l’idea che il più grande guerriero indiano di tutti i tempi, che difese la sua terra, la sua gente e la sua libertà senza mai essere battuto, non possa concludere serenamente il grande ciclo della sua vita? Gli dobbiamo una sepoltura conforme ai suoi desideri. Cento anni dopo la sua morte, urge liberarlo».
Un’ultima battaglia, la sua, e attraverso di lui l’ultima del bisnonno, che ha trovato un convinto sostenitore nell’europarlamentare della Lega Mario Borghezio.
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