«Giù al Nord», cult francese, prenota un remake italiano

Roma Non c’è niente di più cosmopolita del pregiudizio. Sicché non stupisce che Giù al Nord (dal 31 nelle sale), commedia localistica dell’attore comico Dany Boon, artista dell’Olympia nativo di Armentières, dunque profondo conoscitore della Francia settentrionale, dove il Passo di Calais gela la nebbia ma non il cuore, stia diventando un fenomeno di costume di notevoli proporzioni. Intanto, c’è gente che va a Bergues, l’anonimo paese dove si ambienta questa storia semplice ma non semplicistica, per scattarsi una foto mentre fa pipì nello stesso canale in cui nel film un direttore delle poste (Kad Merad), trasferito controvoglia dalla Provenza, si libera dopo una solenne bevuta di ginepro e acquavite, accanto a un suo impiegato, anche amico (Dany Boon, collaboratore del Francis Veber de La cena dei cretini), alla faccia delle convenzioni perbeniste. «Hanno dovuto irrigare il canale con acqua fresca!», ride il regista, colpito da improvviso benessere: con un budget di 11 milioni di euro se ne è visti ritornare 140, nella sola Francia. E i 21 milioni di spettatori noti, probabilmente si moltiplicheranno in Australia, Canada, Germania, Svizzera, Belgio, dov’è atteso il fenomeno.

Gli Usa si son lasciati soffiare i diritti per un remake in salsa americana dalla Medusa, che ora progetta cast importante e uso dei dialetti nostrani: in Giù al Nord l’elemento scatenante di certe risate è una stramba parlata regionale (per noi riprodotta dal doppiatore Francesco Vairano). Forse l’amministratore delegato della casa produttrice, Giampaolo Letta, trasformerà l’operazione in un titolo ferragostano. «C’è un messaggio positivo nella semplicità di questa commedia sociale», nota il manager, siglato l'accordo con la Pathé. Ecco il quadro arrembante d’un film anti-cliché, che celebra il trionfo del caffè alla cicoria, del formaggio puzzolente, del carillon e della piccola gente della Piccardia, usa a esprimersi in un «patois» detto «chti» (si pronuncia «sctì» e si deve scivolare parecchio sulle palatali, a rischio di sputacchiare), qui reso in una calata artificiale, mista di umbro strascicato, bolognese biascicato e di generiche contaminazioni zotico-fonetiche («Pisciotto, non fare il mamozio»). E la vicenda? È quella d’un quadro che per non lasciare Salon-de-Provence (ah, la lavanda, il sole, la Costa azzurra!) si finge paralitico, ma è punito col trasferimento al Nord (per i provenzali il Nord comincia a Lione). Naturalmente, la moglie nevrotica non lo seguirà... Migrando in auto, Philippe ascolta Le plat pays di Brel, è fermato dalla polizia stradale (va a 50 all’ora: non ha fretta di arrivare) e già non ne può più. Ma si ricrederà: tra impiegati piacevolmente sinceri e libertà privata, amerà quegli «ignoranti», disprezzati dai suoi amici. «Le mie gag vengono da Jacques Tati e Gérard Aury: ho girato contro Hollywood e nella tradizione europea.

Per far ridere e commuovere, indicando la via della comprensione reciproca», dice Boon, ora a Parigi, diretto da J. P. Jeunet nel film drammatico Micmacs à tire-larigot (titolo scioglilingua, tanto per restare in zona «chtimi»).

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