Gianfranco e l’«abuso d’ufficio» a Montecitorio

OFF LIMITS Scale e ascensori bloccati, uscieri trasformati in minacciosi buttafuori: tutto per ostacolare i giornalisti

Roma«Scusi, scusi dove va?». «Ah, buongiorno. Ai gruppi parlamentari». «No, mi spiace. Non si può». Aridaje. Lunedì come il martedì precedente, la Camera dei deputati diventa bunker, fortino, cassaforte chiusa a doppia, tripla mandata. E dire che il badge c’è ed è pure ben in vista: giornalista. Qualifica che garantisce di scorrazzare in gran parte del palazzo di Montecitorio. Di solito. Non martedì 20 aprile e neppure lunedì 26 perché il presidente Fini ne blinda l’accesso. Paradossale: di fatto, per dare vita a una corrente, Fini sigilla il palazzo a mo’ di «tupperware» perché dalla sua riunione non esca nemmeno uno spiffero.
Sala Tatarella, quarto piano, quello dei gruppi parlamentari, ala sinistra (e te pareva) della secentesca reggia dei deputati. È lì che il Fini super partes raduna i suoi per un summit che più partes non si può. Una riunione protetta da una linea Maginot piazzata lontana, lontanissima dalla sede dell’incontro. Off limits l’intero Palazzo dei Gruppi, attiguo e collegato a quello dell’Aula; vietato anche solo avvicinarsi al rifugio dei finiani. L’ascensore? Inutile. Le scale? Sì, si arriva al primo piano ma poi il commesso sbarra la strada: «Alt. Mi spiace, oggi non si può passare». Impossibile eludere la sorveglianza, impraticabile aggirare i picchetti disseminati ovunque. Non si passa da nessuna parte e non si arriva neppure a lambire la sala della Lupa, al primo piano di Montecitorio, proprio accanto all’ufficio del presidente. «Abuso» d’ufficio, se per garantire il riserbo del suo summit, Fini si serve di decine di commessi in versione «buttafuori».
Vabbè, i finiani passeranno da qui, no? Sì, ma neppure il primo piano è accessibile, per via della zona rossa pretesa da Gianfranco. «Neanche qui possiamo stare?», «No, mi spiace». Che colpa ne ha il commesso? Nessuna perché l’ordine, perentorio, arriva direttamente dall’alto: la stampa stia alla larga. Due vertici chiusi, quasi top secret, rappresentazione anche visiva di uno status politico: isolato. Il fine di Fini è occultare i suoi piani arrivando financo ad appaltare a se stesso il palazzo di tutti. Così, il suo disegno si trasforma in trama, il suo progetto diventa intrigo. Il suo e dei suoi. Già, i suoi. Chi sono? Quanti sono? Mistero pure lì. La tutela della privacy si dilata in copertura e ambiguità. Hai voglia a piazzarti in qualche corridoio strategico per vedere chi va e chi viene: inutile. Sebbene ufficialmente «non è una questione di numeri ma soltanto una questione politica», la parola d’ordine è evitare la conta.
È stato così martedì scorso, quando i finiani hanno firmato un documento di solidarietà all’ex capo di An, reso blando fino all’eccesso scongiurando strappi e gruppi autonomi per raccattare più sottoscrizioni possibili. Chi c’era in quell’occasione? La versione autorizzata parlava di «39 deputati, 13 senatori, 5 europarlamentari». E poi le deleghe... «Forse anche di più di 57». Vedere la lista non si può: segreto. «Di certo non siamo quattro amici al bar». E nemmeno alla buvette, caffetteria di Montecitorio, perché lì almeno i cronisti li avrebbero contati uno per uno. E invece no: lista nascosta, celata, rimasta clandestina anche di fronte al controdocumento degli ex An fedeli al Pdl. Settantacinque tra deputati e senatori, questi ultimi, con tanto di elenco in ordine alfabetico dalla A alla Z dato alle agenzie di stampa. Ed è stato così lunedì, quando ancora una volta uno stuolo di commessi ha impedito ai giornalisti il conteggio della truppa finiana. Drappello numericamente ridotto, dopo il duello tra i due cofondatori del partito durante la direzione nazionale. Ancora una volta riunione blindatissima per i...

Cinquanta? Quaranta? Forse solo trenta parlamentari pro Gianfranco. Ma il numero preciso dei seguaci finiani non si sa, asserragliati come sono nella trincea della sala Tatarella. Una cosa è certa, però: la truppa è tutt’altro che unita.

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