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La gioia del fratello Pietro: «Non m’avevano dato speranze»

Enza Cusmai

Salvatore ha ripreso conoscenza, parla e riconosce tutti. E subito dopo aver pronunciato «mamma», lo ha ringraziato, in siciliano: «Petri, hai fatto tantu pe’ mia». E lui è euforico. «Sono molto felice, ora dobbiamo pensare al suo futuro».
Pietro Crisafulli è un fratello di sangue e di cuore. Per far «resuscitare» Salvatore ha lasciato il lavoro, ha trasformato la sua casa in un distaccamento ospedaliero con tanto di telecamere a circuito chiuso per oltre un anno, ha annunciato al mondo la sua disperata provocazione: «O mi aiutate a farlo vivere oppure a farlo morire».
Pietro, cosa le ha dato tanta forza?
«La convinzione di avere davanti una persona che mi guardava e capiva quello che dicevo. E ora ne abbiamo le prove».
Dunque Salvatore non è un miracolato.
«No, direi di no. Certo mi sono affidato anche a Gesù Cristo, a Sant’Agata e a Padre Pio ma credo che sia stata la nostra forza di volontà a strapparlo alla morte».
Suo fratello adesso le parla? Cosa dice?
«Poche parole, le scandisce lentamente, sembra un neonato. Mi chiama per nome, poi dice acqua, girami e mi sorride».
In qualche modo si ricorda del passato?
«Certamente. Non i primi tre mesi in cui era in coma a Catania, ma ricorda le mie urla nel giorno in cui l’ho portato via dall’ospedale di Messina, dove l’avevano dato per spacciato perché in stato vegetativo persistente. E ricorda anche la neve, che ha visto quando l’ho trasferito in Toscana e siamo atterrati all’aeroporto di Bologna a febbraio dell’anno scorso».
Dunque lui vedeva e capiva tutto già da tanto tempo.
«Esattamente. Da quando è stato trasferito da Catania a Messina senza il nostro consenso. In quell’ospedale Salvatore è peggiorato fisicamente ma già allora lui piangeva dalla disperazione, ci chiedeva aiuto. Sentiva e capiva tutto ma non poteva comunicare».
Lei ha denunciato quella struttura per mancata assistenza. Cosa succedeva in quelle corsie?
«È stato trascurato, non veniva mai nessuno a seguirlo. L’ho portato via dalla disperazione dopo tre mesi di degenza. Aveva delle piaghe sul corpo orribili, sporche con feci e urina non pulite. In reparto due persone si dovevano occupare di 40 pazienti».
E che dicevano i medici?
«Chi li ha mai visti? Ho vissuto praticamente in sala d’aspetto per 90 giorni ma non sono mai riuscito a parlare con il primario. Non c’era mai. La sua faccia la conosco perché una volta è apparso in tv».
Di questa avventura cosa la disturba di più?
«La mancanza di professionalità di certa gente. Alcuni professori hanno chiesto fino a 6000 euro per una visita di pochi minuti a domicilio. E senza rilasciare neppure una ricevuta fiscale».
A chi va invece il suo grazie?
«Al ministro Storace, non c’è dubbio. Ha mantenuto la promessa. Quando mi ha convocato a Roma mi ha detto: da questo momento non sarai più solo. E così è stato. Ha fatto ricoverare in una struttura adeguata mio fratello e ha garantito un’assistenza eccellente a Catania. Ora Salvatore è seguito da tre fisioterapisti, un fisiatra, un logopedista, un neurologo.

E da un infermiere 4 volte al giorno».

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