Politica

Dal giovane John Elkann lezione di stile all’Ingegnere

Cristiano Gatti

da Milano
Un po’ di storia moderna, un po’ di retroscena privati, molte torte in faccia. Il grande capitalismo italiano, più che altro quello di una certa epoca e di una certa egemonia sabauda, si offre al pubblico con un crudo regolamento di conti. Gli Agnelli contro De Benedetti, ma soprattutto De Benedetti contro un certo Agnelli, il più Agnelli di sempre, l’Avvocato scomparso non più tardi di due anni fa. Il filo conduttore è sempre lo stesso: parte dagli anni Settanta, quando le strade si incrociano negli uffici della Fiat, e poi si allunga in una feroce rivalità, senza tregua e senza quartiere. Ancora oggi, trent'anni dopo, non c'è spazio per un punto d'incontro: De Benedetti racconta la sua verità in un'intervista concessa a RaiSat Extra e ripresa dal Corriere, il giorno dopo il più serio e autorevole rampollo della dinastia, l'erede, il prescelto, cioè John Elkann, rompe la sua blindata riservatezza per esporsi in prima persona a difesa del nonno, scrivendo la lettera di replica sul Corriere. I toni, i sentimenti, le passioni, tutto concorre a rendere il duello più intrigante di molte fiction sul bel mondo dell'industria e della finanza. Questa la trama.
Entra in scena Carlo De Benedetti, l'Ingegnere. Il suo racconto, nelle parti già risapute e nei dettagli inediti, ha tutto il sapore della rivincita. Adesso che la Fiat annaspa, non fa nulla per concedere attenuanti o limare gli aggettivi. Comincia ricordando come la sua vita, a metà degli anni Settanta, finisca per incrociarsi con quella dell'Avvocato. «Decisi di andare in Fiat per debolezza, per vanità e anche per una sottovalutazione da parte mia. Ma se uno è nato a Torino, vive a Torino, fa il fornitore della Fiat e a quarant'anni il re lo chiama per dirgli vuoi venire a fare l'amministratore delegato della Fiat?, beh, si capisce. Io però posi una condizione: andarci come azionista. Quello fu l'errore: mi illusi di essere un co-padrone...».
Da quell'errore, in definitiva, esplode la guerra che oggi potremmo definire dei Trent'anni. In Fiat, come sempre, di padrone ce n'è soltanto uno. E non è De Benedetti. Così, poco tempo dopo, il co-padrone illuso deve andarsene. Con il suo carico di risentimenti e di livori irrisolti. Ancora adesso, dopo tanto tempo, la sua lettura della storia torinese ha il sapore della spietata accusa. «La Fiat tornò ad essere grande solo grazie a Ghidella, l'uomo della Uno, un manager che proposi io. Quando se ne andò, cominciò il declino...».
Le ragioni, di questo declino inarrestabile? Riassumendo, un nome solo: Gianni Agnelli. «Era incapace di scelte drastiche. Appena arrivato, gli dissi: qui bisogna subito mandare a casa 25mila persone. Ci volle riflettere. Andò a Roma, il giorno dopo tornò e mi disse: non si può fare. Agnelli aveva molto più senso dell'estetica che della fatica. Ed era molto sensibile alla politica. La dileggiava, ma ne aveva molta paura...».
È solo l'inizio. Se può apparire impietoso, il seguito è pure peggio. De Benedetti non usa giri di parole e sofisticate allusioni: da quanto vedeva lui, l'unica cosa che veramente contasse per l'Avvocato era la cura della propria immagine. «Veniva prima di tutto, anche dell'azienda. Basti pensare alla sua immagine politica di liberal: in realtà, Agnelli era un profondo conservatore, che però riteneva fosse molto più chic comportarsi da progressista».
Un bluff, allora? Un mito di coccio? Il rivale riconosce come Agnelli sia in effetti un grande simbolo, «un personaggio sul piano umano irripetibile, che ha avuto grandi intuizioni finanziarie», ma anche dopo questa concessione arriva subito la censura pesantissima: «Era un pessimo gestore».
La stessa alleanza con General Motors, finita come l'Italia sa, appare nella ricostruzione di De Benedetti errore colossale, anch'esso causato dall'inguaribile senso estetico del «pessimo gestore»: «Una volta, a Sankt Moritz, mi chiese se fosse meglio unirsi a General Motors o a Daimler Chrysler. Io mi schierai per i tedeschi. Lui scosse la testa: ma io non so il tedesco. No, preferisco gli americani. Così, fece un accordo finanziariamente fantastico, ma industrialmente sbagliato».
Ricostruita la grande parabola torinese dalla postazione nemica, senza risparmiare nulla al rivale defunto, De Benedetti si concede infine una previsione: da sola, la Fiat non si salverà. La sua unica speranza, ormai, è un compratore con gli occhi a mandorla: la Cina. E così sia.
Una simile bordata della memoria, però, non può scivolare via come acqua fresca. Lo sfregio alla lapide più blasonata della gloriosa famiglia smuove l'orgoglio dell'ultimo Agnelli. Mentre Lapo è in giro per circuiti motociclistici addobbato da ultrà di Valentino Rossi, John si carica il peso dell'onore offeso e scrive di suo pugno la replica, gelida e tagliente. «Non penso - si legge dopo poche righe - sia una prova di coraggio, né di correttezza, attaccare qualcuno che non può rispondere. Inoltre mi sembra che l'Ingegner De Benedetti non dovrebbe usare a sostegno delle proprie argomentazioni su temi delicati, come le scelte aziendali e occupazionali, pretese ricostruzioni di conversazioni private. Sono materie che rientrano nei doveri di riservatezza che un dirigente d'impresa dovrebbe conoscere e osservare. Aggiungo infine che chi ha conosciuto mio nonno ben sa che lui non si sarebbe mai permesso di esprimersi pubblicamente nei termini usati dall'Ingegner De Benedetti...».
Il giovane Agnelli esprime stizza per la riservatezza tradita, per i segreti rivelati, per le regole del gioco completamente saltate. Forse le sue radici affondano ancora in un mondo antico, dove le guerre del capitale si conducevano nel confessionale dei consigli d'amministrazione.

Dovrà farsene una ragione: quel mondo non c'è più, se n'è andato con suo nonno.
Cristiano Gatti

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