Il giovane ribelle che fece litigare Hugo e Carducci

Profugo, fu impiccato alla stregua dei traditori, con l’accusa (non provata) di aver preparato un regicidio. L’Italia che egli tanto amava l’aveva scaricato per motivi politici

Il giovane ribelle che fece litigare Hugo e Carducci

Il suo corpo sussultò sette lunghi minuti prima che lo strangolamento fosse compiuto. Poi, rimase a piombo sulla forca. Dalla bocca del boia, rimasta spalancata per lo stupore, uscì un respiro di sollievo. Mentre assisteva all’inaudita agonia, aveva temuto un’ennesima sorpresa. Che so, la corda che si spezza, il crollo dell’impalcatura, un fulmine del cielo che gli venisse in aiuto. Da quello lì, c’era da aspettarsi di tutto.
Il Nostro era una natura scatenata e aveva cercato la morte con metodo. Se solo avesse atteso di superare i furori giovanili senza eccessi fatali, il suo posto nei libri di storia sarebbe stato meno scomodo. Altri profughi come lui, senza fare gli inutili eroi, avevano dato lustro alla Patria meritandosi la gratitudine dei posteri. Come Vittorio Zuppelli, ministro della Guerra durante il primo conflitto mondiale e poi vicepresidente del Senato.
Ma il ventiquattrenne, agli onori preferì la gloria. Dall’arresto al capestro, non cessò di provocare. In carcere aveva rifiutato il prete, fumato come un turco, inveito contro le guardie. «Traditore d’Italia», sibilava ogni volta che se ne trovava una davanti con l’aquila bicipite sulla divisa. In quella parte dell’Impero molti secondini erano infatti italiani di lingua. Due giorni prima dell’esecuzione, fu condotto nel cortile e al cospetto di un plotone militare gli venne letta la sentenza in tedesco: «Zum Tod durch den Strang». E lui, che era bilingue, aveva subito tradotto urlando, quasi per cancellare l’eco teutonica: «Alla morte sulla forca». L’impiccagione era riservata ai traditori. Una morte di serie C, rispetto alla bella morte per fucilazione. Umiliante era stata anche la lettura di fronte al plotone di fucilieri, a sottolineare che non era degno delle loro pallottole.
Sul patibolo, mentre gli legavano le mani, gridò: «Viva l’Italia, fuori lo straniero!». E poi giù, mentre si divincolava, una serqua di improperi: «Dannazione e morte a Francesco Giuseppe e alla sua famiglia. Morte all’Austria». Dopo che ebbe il cappio collo, ripeté: «Viva l’Italia». Continuò mentre il boia lo issava con la corda: «Viva l’Italia». Raggiunta, penzolando, l’altezza dovuta disse ancora: «Viva l’I...» e poi fu solo uno scalciare di gambe.
Il governo italiano non aveva mosso un dito per evitare l’esecuzione. Vuoi perché le accuse al Nostro erano molto gravi: il progetto di assassinare l’Imperatore; il probabile coinvolgimento in un attentato in cui erano morte due persone. Vuoi per non mettere becco, trattandosi di cittadino austriaco, sia pure di terra irredenta. Ma l’irredentismo non era più di moda. L’Italia, e questa era la vera ragione della sua inerzia, voleva non solo tenersi buona l’Austria, ma stemperare la propria immagine di Nazione revanscista, pullulante di terroristi anarchici alla Felice Orsini disposti a ogni carneficina. Dunque, il nostro eroe fu scaricato dalle alte sfere come una zavorra fastidiosa.
Opposti i sentimenti popolari in molte parti d’Europa. Il più venerando poeta dell’epoca, il francese Victor Hugo, fu particolarmente scosso dalla condanna a morte del profugo italiano. Spedì allora un nobile telegramma a Franz Joseph: «L’imperatore d’Austria in questo momento deve fare una grazia. La firmi e sarà grande!». Nonostante l’aureola del vate, il sovrano non lo degnò di una risposta. Hugo tornò all’ufficio postale e mandò un secondo dispaccio ancora più ispirato del primo: «La pena di morte sarà cancellata dal codice del XX secolo. Sarebbe bello praticare fin da ora una legge dell’avvenire».
Anche stavolta l’imperatore lo ignorò, ma si fece invece vivo l’illustre collega, Giosue Carducci. Inaspettatamente, il vate italiano se la prese col vate francese dicendogli in sostanza: «Ma di che ti impicci?» e gli rimproverò di abbassarsi a supplicare un tiranno, mentre bisognava seppellirlo nel disprezzo anche a costo di lasciare il condannato al suo destino. In realtà, anche se è spiacevole dirlo, a Carducci piaceva l’idea di un nuovo martire per tenere viva la fiaccola dell’irredentismo. In lui era rimasto intatto, sia pure sulla pelle degli altri, il patriottismo che il governo aveva perduto.
Suscitando questi contrapposti sentimenti, il ventiquattrenne passò dunque a migliore vita. Nulla della sua grama esistenza faceva presagire un esito così epico.
Dionisio, questo un suo nome, era figlio naturale di un panettiere e di una cuoca. La mamma gli dette il suo tedeschissimo cognome che egli tentò più tardi di italianizzare privandolo della «k». Nonostante la povertà, giunse a frequentare il Politecnico di Vienna. Ma, chiamato alle armi, disertò. Fuggì dal natìo porto di Tergeste e approdò su una barchetta a Fano. Nel Regno avrebbe avute, per ingegno, spalancate molte porte. Ma era divorato dal demone di morire per l’italianità della propria terra. Vi ritornò con fumosi progetti di attentato. Tradito, gli trovarono addosso delle bombe.

Tanto bastò perché gli fossero addossati, senza prova, alcuni atti impuniti di terrorismo.
Le sue reliquie hanno oggi degna sepoltura. Perduta invece, durante l’autopsia, la sua testa, bella e fiera, da eroe romantico.
Chi era?

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