Giudice archivia il biotestamento: «Libera di non curarsi»

«Caro giudice, mi lasci morire in pace. E quando io non sarò più capace di intendere e di volere, lasci che sia mio marito a decidere di staccare la spina». Una trevigiana di 48 anni, che soffre di una grave patologia degenerativa, ha inoltrato questa richiesta, qualcuno l’ha addirittura definita preghiera, al giudice Clarice Di Tullio. Il quale, proprio mentre in parlamento si stanno delineando gli ultimi dettagli della legge sul biotestamento, ha pensato bene di firmare il decreto che autorizza preventivamente il marito, nominato giuridicamente amministratore di sostegno, a rifiutare le cure che i medici ritenessero necessarie per salvare la vita alla donna. La decisione del magistrato di Treviso, ovviamente, ha scatenato un vespaio di polemiche. Non foss’altro per il fatto che alla Camera la nuova legge in discussione sembra andare nella direzione opposta, ammettendo sì le indicazioni degli interessati in materia di accanimento terapeutico ma affidando al medico curante la gestione del processo di cura. «Attraverso il provvedimento del giudice - ha infatti commentato il ministro Sacconi, peraltro anch’egli trevigiano - si vorrebbe, quanto meno oggettivamente, concorrere ad introdurre il suicidio assistito e programmato, che il nostro ordinamento non consente».
I casi Welby ed Englaro hanno lasciato il segno nel dibattito politico italiano. Il mix complicato di religione, etica, politica, giustizia ha finito col dividere il paese. Il caso della signora trevigiana è finito nell’agenda del giudice all’inizio di quest’anno, quando all’ospedale di Treviso sembrava non ci fosse più nulla da fare. I medici avevano ritenuto necessario, secondo Il Gazzettino, operare una trasfusione e una tracheostomia per garantire la respirazione diventata molto problematica. È stato in quel momento che, partendo da obiezioni di tipo religioso (la paziente è testimone di Geova), la 48enne ha opposto un netto rifiuto.
Fortunatamente la donna è poi riuscita a riprendersi, tanto da poter tornare a casa e vivere normalmente. Almeno fino ad ora. Tuttavia, conscia della gravità della malattia e consapevole che la situazione estrema si sarebbe potuta ripetere magari senza la possibilità di poter decidere per sè, la signora ha chiesto al giudice di poter nominare il marito quale unica persona autorizzata a opporre un eventuale rifiuto alle cure. Il giudice tutelare Di Tullio, pur in assenza di un quadro normativo italiano chiaro in materia, ha ritenuto di accogliere questa richiesta.
Secondo il magistrato, il codice deontologico dei medici e le norme sovranazionali relative ai diritti dell’uomo e della biomedicina impedirebbero qualsiasi intervento legato alla salute senza consenso dell’interessato. Il «salto» di questo decreto è la delega preventiva al marito, firmata in anticipo e ratificata dal giudice trevigiano.

Di sicuro quel povero marito si augura che non arrivi mai il momento in cui il medico di turno si rivolgerà a lui per chiedere cosa deve fare: se tentare di salvare la moglie o se invece staccare, autorizzato da un decreto, la spina.

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