Il giudice francese e l’Italia delle toghe intoccabili

Dopo aver letto l’articolo sul magistrato francese che è stato oggetto di un «processo» da parte dei deputati dell’Assemblea nazionale, mi sono chiesto se non risponda a verità l’accusa periodicamente lanciata dall’opposizione di sinistra, ossia, che in Italia ci sia un regime. Ma è il regime della magistratura, che pretende di non essere giudicata nemmeno dal Parlamento e che fa fuoco e fiamme se solo sente parlare di riforme, come se essa non dovesse far altro che applicare le leggi dello Stato che il Parlamento ha votato. Una magistratura che ha nei suoi ranghi Pm che pubblicamente dichiarano di voler combattere questo o quel reato (mafia in particolare), quando non c’è articolo della Costituzione, alla quale loro tanto spesso si appellano, che accenna al ruolo combattente della magistratura, ruolo che, invece, è strettamente circoscritto all’accusa e al giudizio. Peccato, dunque, che un fatto come quello del magistrato francese non abbia avuto l’eco che si meritava sia in Francia sia in Italia. Avrebbe rappresentato un segnale forte.



Be’, caro Silvestrini, non può certo affermare che all’eccellente servizio di Stefano Zurlo fosse stato dedicato un titoletto a due colonne, come è invece accaduto in altri quotidiani (per non dire dei Tg). In quanto alla Francia, sappia che la vicenda di Fabrice Burgaud è diventato un caso nazionale, con la stampa che gli dedica le prime pagine e i telegiornali l’apertura. L’audizione in diretta del petit juge ha provocato uno choc nell’opinione pubblica già scossa dal precedente del piemme di Pontoise, Didier Peyrat, duramente censurato dal Procuratore capo per aver scritto un articolo su Le Monde nel quale criticava i metodi di Nicolas Sarkozy, il ministro degli Interni. Choc, sia chiaro, non provocato dalla censura, ma dallo sconfinamento di un magistrato che come lei giustamente osserva, caro Silvestrini, è chiamato ad amministrare la giustizia e non a sindacare l’operato di un ministro o, meno che mai, una legge dello Stato. Questo hanno di buono i francesi: reagiscono. Non so se temano una deriva giustizialista o il proposito della magistratura di sostituirsi al potere esecutivo. Non so, per dirla in parole povere, se paventino il contagio italiano. Ma stanno all’erta e cominciano a riflettere sulle contromisure da prendere. Mentre da noi quella censura, per non dire dell’audizione di Fabrice Burgaud, sarebbero state giudicate una aggressione alla magistratura e alla sua indipendenza. Con la sinistra sulle barricate, i magistrati in sciopero o in corsa a tirare la giacchetta di Carlo Azeglio Ciampi.
Nella Francia patria dei diritti umani e civili, nella Francia eletta a patria d’adozione dai Tabucchi col nervo democratico scoperto, non solo è lecito, ma è ritenuto salutare trascinare un giudice istruttore pressoché imberbe (quando spedì in galera diciotto persone – poi, dopo due anni, tutte assolte – accusandole di pedofilia, era ventisettenne) e autore, come ha detto Chirac, di un «disastro giudiziario», davanti alla Commissione parlamentare. In Francia non solo è lecito, ma sacrosanto chiedersi se sia ragionevole che il giudice istruttore, imberbe o no, detenga il potere assoluto, non controllabile, non sindacabile, di sbattere in cella con una accusa infamante, con una accusa da morte civile, diciotto innocenti. Innocenti con formula piena. Commentando l’operato del petit juge, l’ex Procuratore generale della Corte di cassazione, Jean-François Burgelin, ha dovuto riconoscere che il sistema giudiziario voluto da Napoleone e pervaso di giacobinismo «ha fatto il suo tempo». Ha fatto il suo tempo lo strapotere – giacobino – dell’accusa che ha bisogno d’essere mitigato, secondo Burgelin, da una buona dose di contrappesi presenti nel sistema anglosassone. Il quale si basa, come è noto, sulla netta separazione delle carriere dei magistrati e sul rigoroso equilibrio tra accusa e difesa. Il discorso vale anche per noi, che adottammo con entusiasmo codice e procedure napoleoniche.

La differenza è che mentre tutto ciò in Francia viene inteso come impegno a guarirla, la giustizia, da noi è liquidato come violento, indicibile attacco alla casta dei magistrati. Invidiare i Tabucchi grida vendetta al cospetto di Dio, lo so. Però, in questa circostanza, li invidio. Molto.
Paolo Granzotto

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