Giuramento sui due cantieri: guerra e ricostruzione civile

Il "re elettivo" ha ricordato che c'è una differenza tra chi crea la civiltà e chi la distrugge: leggi il discorso integrale

Giuramento sui due cantieri: guerra e ricostruzione civile

Ieri l'America ha ritrovato se stessa: «Scrolliamoci la polvere di dosso», ha detto Obama e ricominciamo da capo. «To dust off» scrollarsi la polvere, è l'invito alla rinascita come il lavacro del battesimo. Ieri l'America ha pianto di commozione, si è unita nel suo grandioso corpo ed è entrata in una nuova era. La democrazia del nuovo millennio, col primo presidente nero della sua storia. Il presidente uscente George W. Bush era commosso. Sembrava dire che Obama leggeva nel suo pensiero, tanto annuiva e applaudiva. «Noi siamo in guerra», ha detto Obama riferendosi ai nemici della civiltà: l'America di Obama si sente sia in guerra che in ricostruzione civile. Due cantieri diversi e vicini.

Il giorno prima dell'incoronazione del presidente, l'America si era già fermata commossa: lunedì è stato il "Martin Luther King Day", un giorno sacro come Natale in cui scuole, banche e supermercati sono chiusi perché gli americani celebrano il valore del sogno: «I've had a dream». Non soltanto l'American Dream, ma il sogno dei neri americani: un giorno, fra quarant'anni, arrivare alla Casa Bianca, come i bianchi. Una bomba emotiva. Obama era commosso e irrigidito, il suo inglese spedito, forbito e letterario, il gesto e la postura che indicavano come si sentisse la reincarnazione di Abraham Lincoln, sulla cui Bibbia ha giurato e cui si ispira.

La grande festa è stata studiata in maniera maniacale, ma soltanto chi conosce proletariato e classe media americana, specialmente quella nera, può capire l'emozione di massa che scuote e fa danzare e urlare e piangere la gente che da una notte aspetta sui prati. Le donne in trance, i giovani sbalorditi dalla grandezza spirituale della nazione. Gli italiani in genere hanno una visione banale dell'America, di cui raramente conoscono l'anima profonda, quella sua ingenuità così ben interpretata da Obama, da sua moglie e persino dalle sue bambine intente a scattare fotografie di nascosto, alla parata dei vecchi presidenti con il padre di Bush male in arnese (e sua moglie Laura che respinge l'aiuto di una mano del seguito dicendo seccata «I'm ok», non ho bisogno), ma tutti, in abiti civili e in uniforme, festeggiavano l'immacolata ingenuità delle identità, culture, religioni e che però prontamente risponde al richiamo della libertà.

Obama ha o non ha strizzato l'occhio al mondo islamico? Secondo me no. Ha parlato la lingua onesta e chiara: azzeriamo il passato, ma senza dimenticare che c'è una differenza radicale fra chi costruisce la civiltà e chi aspira a distruggerla: parole di fuoco. Quando l'elicottero che portava via l'ex presidente Bush si è alzato in volo, si è dunque chiusa l'era del texano che aveva dovuto fronteggiare l'11 settembre e due guerre di cui non aveva alcuna voglia e che gli hanno valso l'ostracismo di mezzo mondo. I cannoni sparavano le loro salve a colpi serrati e Obama assicurava con i gesti, gli abbracci, i sorrisi, che l'America non conosce discontinuità, ma soltanto una diversa maniera di affrontare i problemi.

Chi in Italia vagheggiava un Obama sinistrese, pacifista, un Obama anti-americano, ha sbagliato tutto. Il corpo di Obama, la sua voce, la sua figura composta ed atletica, la sua voce fluente anche quando doveva soddisfare la necessità retorica, l'avarizia nel sorridere, il richiamo al diritto di ognuno a costruire la propria felicità, volevano dire: io sono parte dell'anima profonda di questo Paese che è sempre stato unito nei momenti di crisi e questo è il momento della crisi.

Bill Clinton, imbiancato a neve, annuiva sorridendo come dire «figlio mio», Jimmy Carter era impegnato a mostrarsi fin troppo vitale e scattante, i grandi patriarchi della vita politica parlamentare erano coscienti di essere comparse di lusso in uno show che doveva costruire e sorreggere il messaggio forte agli americani, i quali usano la loro bandiera come portafortuna, come asciugamano, salvietta, decorazione alle pareti, costume da bagno per i bambini, simbolo di unità popolare di massa, un simbolo non retorico e più popolare di qualsiasi gadget. Gli americani amano forsennatamente la loro bandiera.

Era poi il trionfo dell'America nera che dopo due giorni di tensione ideale e liberatoria soffriva dell’eccesso di felicità, si sentiva vendicata: quei volti, quegli occhi pieni di disperata felicità erano le immagini di una nuova consapevolezza di sé: la consapevolezza del rispetto reciproco, della fine delle barriere. È finita l'America del Ku Klux Klan, della separatezza altera degli "old boys" arrivati dall'Europa, ed è cominciata l'era del rispetto per ciascuno e di ciascuno per tutti. E quei tutti erano ieri neri e asiatici, latinos e bianchi delle varie radici ed origini: mentre lassù quel giovane uomo, l'uomo alto, in quel cappotto lungo e scuro, li rappresentava tutti e tutti ieri si riconoscevano nella nuova speranza di scuotersi la polvere di dosso e trovarsi insieme stretti e forti. Un sentimento che è diventato fisico quando la voce sola canta l'inno di un Paese che – come ha ricordato il nuovo presidente – si sente primo al mondo non perché abbia più armi o più ricchezza (anzi: è in crisi) ma perché ha i migliori cervelli, ha strumenti intellettuali, ha ricerca scientifica e fede nel futuro.

Vorrei insistere sul fatto che l'America è una Repubblica guidata da un re elettivo. Quando gli Stati Uniti nacquero, erano l'unica Repubblica della terra e dovevano farsi rispettare da regni e imperi del vecchio mondo. Essendo inglesi di origine crearono un cerimoniale, regole, e apparati di garanzie, pesi e contrappesi, ma anche di spettacolarità regale che non privasse il popolo della dignità che gli altri popoli trovavano nei loro re. Per questo, appunto, Michelle Obama è da ieri regina del suo Paese e le due bambine, piccole principesse. C'è dietro questa esigenza molto di più di una voglia di stupire: c'è la voglia e la capacità di tramandare e onorare i simboli. Ieri la piazza grande dell'America, da Capitol Hill alle piazze e strade delle grandi città, era un tempio di simboli riconfermati e Obama ha officiato l'amministrazione dei simboli che tutti richiamano al primo valore della prima democrazia repubblicana del mondo: la libertà, che da noi è in genere una parola appena buona per lapidi. Il cielo era terso, l'aria fredda, i baveri alzati, ma non c'era quasi vento, ieri a Washington.

Ma una tempesta di emozioni e di conferme globali polarizzate

sulla voce convincente di un uomo nero, faceva volare i cappelli, garrire le bandiere e allargare i cuori. Voi perdonerete a un vecchio americano in esilio di dire «God bless America» e che benedica il suo nuovo presidente.

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