Politica

La grande impresa col deficit di modernità

La grande impresa col deficit di modernità

Una economia che non cresce, una possibile procedura comunitaria per disavanzo eccessivo ormai vicino al 4 per cento insieme a Portogallo, Francia, Germania e Olanda, una crisi dell’Unione Europea dopo il voto francese e olandese sulla nuova Costituzione costituiscono una miscela esplosiva che richiede una immediata iniziativa politica ed economica per evitare guai ancora peggiori. Diciamo subito che invocare l’uscita dell’Italia dalla Moneta unica è solo una grande sciocchezza che aggiunge altro danno al Paese. Per capire, invece, cosa fare bisogna partire da quella «operazione verità» fatta l’altro giorno da Antonio Fazio nel tradizionale appuntamento di fine maggio in Banca d’Italia. Con chiarezza e neutralità politica ed istituzionale Fazio ha descritto l’attuale crisi economica indicando le responsabilità politiche ed imprenditoriali maturate lungo tutto l’arco dell’ultimo decennio. Fuori da ogni polemica politica, Fazio ha rilevato che dal 1995 al 2000 l’incremento della produttività del lavoro nelle aziende manifatturiere è stato in media dell’1 per cento l’anno, a fronte del 3,2 in Germania, del 4,3 in Francia, del 3,9 negli Usa. Analogo andamento è proseguito dal 2001 al 2004. Il ridotto incremento della produttività del lavoro ha fatto progressivamente perdere competitività al Paese e ha fatto crollare le nostre esportazioni che dal 4,6 del 1995 sono passate al 3,5 del 2000 e al 2,9 del 2004. Dieci anni, insomma, in cui il nostro apparato industriale ha perso colpi sotto la pressione della competizione mondiale senza che il sistema politico nel suo complesso abbia saputo porci riparo. Ma la crisi del Paese va ben oltre il suo sistema politico e colpisce anche la grande impresa privata, pressoché assente nell’ammodernamento del nostro apparato produttivo. Valga per tutti l’esempio della ricerca. La spesa pubblica italiana in questo fondamentale settore è pari allo 0,6 per cento del Pil, a fronte dello 0,8 per cento in Francia e in Germania, ma il settore privato vi contribuisce in misura ancora inferiore. I privati in Italia destinano alla ricerca lo 0,5 per cento del Pil, a fronte dell’1,7 in Germania e dell’1,4 in Francia. Insomma, la spesa privata per la ricerca in Germania e in Francia è tre volte quella italiana, con le conseguenze sulla competitività che sono sotto gli occhi di tutti. Ma perché questo accade? Davvero le nostre imprese sono così neglette da non investire sul futuro e quindi sulla ricerca e sull’innovazione? La verità è tutta un’altra, ed è, forse, ancora più amara. Nei primi 40 anni della vita repubblicana la ricerca e l’innovazione erano per larghissima parte appannaggio della grande impresa pubblica, che inserì l’Italia nei settori a tecnologia avanzata, dallo spazio all’avionica, dalla chimica fine all’informatica, dall’energia all’industria aeronautica, dall’elettronica ai nuovi metalli. La struttura produttiva del Paese era fondata ieri, e lo è ancora oggi, per il 99 per cento su imprese con meno di 50 addetti, capaci di innovare nei propri processi produttivi, ma inadeguati a reggere lo sforzo in quella ricerca e in quella innovazione «trasversale» capace di trasferire significativi incrementi di produttività nell’universo mondo delle imprese, compito al quale attendeva, per l’appunto, l’industria a partecipazione statale. La massiccia e scriteriata privatizzazione di queste grandi imprese pubbliche ad alta tecnologia, in assenza di investitori istituzionali quali i fondi pensione, ha lasciato intatta la struttura produttiva italiana fondata su piccole e medie imprese e nel mentre ha fatto emergere un pugno di imprenditori i quali, piuttosto che investire in ricerca e innovazione, hanno investito nella finanza, acquistando banche, e nell’informazione, acquistando testate giornalistiche. È cresciuto così il potere di pochi, nel mentre il Paese si impoveriva perdendo competitività, quote di commercio internazionale e per dieci anni crescendo pochissimo sino a cadere nell’attuale recessione. Una diagnosi cruda e impietosa quella del governatore della Banca d’Italia che mette tutti dinanzi alle proprie responsabilità a cominciare, naturalmente, dalla politica, maggioranza ed opposizione compresa, che ha l’obbligo di attivare subito meccanismi virtuosi per rilanciare competitività e crescita. Ci scusiamo con i nostri lettori se ancora una volta ripetiamo che bisogna fare subito una manovra capace a) di far recuperare competitività di prezzo alle imprese più esposte alla concorrenza internazionale; b) rilanciare gli investimenti pubblici in maniera più diffusa sul territorio coinvolgendo anche i comuni capoluogo; c) incentivare fiscalmente gli investimenti delle imprese con norme a termine. L’insieme di queste misure potrebbe far riaccendere subito il motore dell’economia che per correre, però, nel medio periodo ha bisogno di massicci investimenti nella ricerca, nella innovazione e nelle grandi reti materiali e immateriali. Incentivare questi investimenti con agevolazioni fiscali e forti contributi in conto interessi è una linea che su nostra proposta è stata già adottata dal Parlamento europeo e dovrebbe subito essere raccolta dalla nostra legislazione nazionale. Per fare tutto ciò occorrono naturalmente soldi, che nel bilancio dello Stato non ci sono ma che possono essere recuperati con immediatezza (almeno 30 miliardi di euro) attivando, come abbiamo più volte ripetuto, un grande spin-off immobiliare per una parte dei palazzi utilizzati dalla pubblica amministrazione. È ciò che fanno le grandi imprese quando vogliono finanziare il proprio sviluppo senza indebitarsi ulteriormente. E l’Italia è in queste condizioni. Da almeno due anni chiediamo di seguire questa strada ma abbiamo registrato solo silenzio e immobilismo e non abbiamo né visto né sentito proposte alternative. Non siamo stati ascoltati ieri e non lo saremo, forse, neanche oggi se diciamo che per rilanciare ricerca e innovazione serve anche il ritorno parziale di un ruolo del pubblico nella gestione diretta delle grandi imprese a tecnologia avanzata e a redditività differita come puntualmente avviene in Francia e in Germania. È vero che anche queste economie non brillano oggi per crescita economica, ma è pur vero che le loro esportazioni in questi anni sono aumentate, dimostrando con ciò che sono Paesi che stanno investendo nel futuro, mentre noi affondiamo nelle sabbie mobili di guerre tra fazioni imprenditoriali e nella frantumazione sempre più litigiosa ed evanescente dell’intero panorama politico italiano.

Il domani può ancora essere nelle nostre mani, ma il tempo si è maledettamente ridotto ed ogni ritardo potrebbe esserci davvero fatale.

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